«Troppe leggi e troppi ricorsi Fatta giustizia sul caso Bellomo»
Pajno, presidente del Consiglio di Stato: non siamo i “giudici del no”
«La vicenda del giudice Bellomo è stata per noi dolorosa, ma l’abbiamo affrontata con tempestività ed efficacia. A tempo di record, direi. E oggi Bellomo è un privato cittadino».
Caso chiuso, quindi?
«Nello specifico sì, fermo il seguito di eventuali ricorsi annunciati. Però restano aperte questioni più generali, dall’adeguatezza del nostro procedimento disciplinare al controllo sulle scuole della magistratura».
Nel suo ufficio al piano nobile del cinquecentesco palazzo Spada, nel cuore della Roma papalina, il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno sta limando gli ultimi dettagli della relazione che oggi terrà all’apertura dell’anno giudiziario. Cerimonia solenne e di bilancio, alla presenza del presidente della Repubblica, che quest’anno si svolge in un clima diverso dal solito per via del clamore suscitato dal giudice destituito a causa delle regole, per così dire, stravaganti inserite nei suoi corsi per aspiranti toghe.
A proposito di controlli, sul giudice Bellomo voi non avevate mai avuto dubbi o sospetti?
«Mai, perché nel lavoro svolto qui è sempre stato rapido ed efficiente, disponibile al dialogo. Le incolpazioni, d’altra parte, sono state mosse per fatti extra istituzionali. Tuttavia è il caso di ricordare che noi possiamo vigilare solo sui magistrati che fanno i docenti, autorizzando l’insegnamento quando sia compatibile con i loro impegni d’ufficio; non abbiamo potere di controllo sulle società private che gestiscono i corsi».
E questo è un problema?
«Il problema sta nel fallimento della formazione pubblica dei futuri magistrati, che lascia spazio alle iniziative private. Con il Consiglio superiore della magistratura stiamo avviando un confronto sul tema, anche per rendere più rigorosi i nostri criteri».
Quali difficoltà avete riscontrato nella procedura disciplinare?
«Noi ci siamo mossi per primi, in assenza di un procedimento penale che avesse accertato i fatti. Così come siamo stati noi a trasmettere gli atti al Csm quando è emerso il ruolo di un magistrato ordinario. Le nostre verifiche hanno rispettato le garanzie di legge, ma paghiamo l’assenza di strutture ispettive. Le norme sul nostro sistema disciplinare sono antiche, da anni abbiamo segnalato a diversi governi la necessità di modificarle, predisponendo bozze di riforma. L’augurio è che nella prossima legislatura il tema sia finalmente affrontato e risolto ».
In definitiva, che insegnamento ha tratto dal caso Bellomo?
«Che non bisogna abbassare la guardia. E che dobbiamo cercare di fare giustizia al nostro interno nella maniera più convincente possibile, perché solo così possiamo rivendicare l’autorevolezza nel fare giustizia per gli altri, attraverso i nostri provvedimenti».
Proprio i vostri provvedimenti vengono spesso contestati dal potere politico, dal quale siete considerati i «giudici del no», sempre pronti a bloccare opere e cambiamenti. Che cosa risponde?
«Che non è vero. Dai dati in nostro possesso risulta che gli appalti impugnati sono meno del 3 per cento, e quelli bloccati meno dell’uno per cento. Ma molte volte, in presenza di ricorsi, sono le stazioni appaltanti che si bloccano anche quando noi neghiamo la sospensione dei lavori, nel timore di incorrere in successive sanzioni».
Ci sono troppi ricorsi?
«Probabilmente sì, se si va dai genitori che talvolta arrivano a impugnare la mancata promozione dei figli, a cittadini e autorità locali che contestano la realizzazione di qualsiasi infrastruttura attraversi il proprio territorio, fino alle imprese che nelle gare d’appalto sembrano utilizzare i ricorsi per sfuggire alla competizione economica, mirando a far estromettere il concorrente anziché misurarsi sul piano dell’offerta».
Quando decidete su questioni di altissimo valore economico, possono sorgere sospetti; si può parlare di una «questione morale» nel Consiglio di Stato?
«Assolutamente no; è normale che i giudici decidano questioni di rilevante interesse economico. Se poi ci sono comportamenti sbagliati o illegittimi di singoli componenti, nel momento in cui vengono alla luce siamo pronti a perseguirli, nel nostro stesso interesse».
Vi accusano di fare politica, sostituendovi al legislatore o al governante.
«Non siamo noi a fare politica, ma a volte decidiamo su provvedimenti che attuano scelte politiche. Se il potere politico non svolge la propria funzione di composizione dei conflitti sociali, questi si riversano sul giudice, chiamato comunque a dare risposte. Che possono avere un grande impatto sul mondo del lavoro, sulla salute dei cittadini, sull’ambiente».
Le ricadute politiche delle vostre decisioni derivano anche da leggi confuse o mal fatte, nonché da governi che si mostrano inadeguati, dal centro alla periferia?
«Certamente avremmo bisogno di meno leggi e fatte meglio. Ci sono troppe deroghe che rendono incerta l’applicazione delle norme generali, norme successive che si sovrappongono alle precedenti senza abrogarle, norme troppo generiche o “di compromesso”, in cui la scelta viene rimessa alla fase attuativa. Tutto questo ci carica di responsabilità che dovrebbero essere del legislatore, oppure degli amministratori, i quali però sono restii ad assumerle».
Dentro questo palazzo invece va tutto bene? C’è chi denuncia un basso tasso di produttività a fronte di uno molto più alto di incarichi extragiudiziari, soprattutto nel governo, che destano sospetti di contiguità...
«I numeri dicono altro. La soglia degli ottanta procedimenti all’anno per ogni giudice è quella minima, mentre mediamente la produzione individuale è di circa 170 sentenze all’anno, a cui vanno aggiunte circa settanta ordinanze cautelari, per un totale di 240 provvedimenti annui. Per ciò che riguarda gli incarichi extragiudiziari, su oltre quattrocento magistrati amministrativi ce ne sono solo sette fuori ruolo con incarichi ministeriali e altri sette presso organi costituzionali o Autorità. Quanto alla presunta contiguità, per alcuni siamo troppo vicini all’amministrazione, per altri siamo i “giudici del no”; la verità è che siamo giudici e basta».
Supplenza Se la politica non svolge le proprie funzioni i conflitti sociali si riversano su noi giudici