Corriere della Sera

«Troppe leggi e troppi ricorsi Fatta giustizia sul caso Bellomo»

Pajno, presidente del Consiglio di Stato: non siamo i “giudici del no”

- di Giovanni Bianconi

«La vicenda del giudice Bellomo è stata per noi dolorosa, ma l’abbiamo affrontata con tempestivi­tà ed efficacia. A tempo di record, direi. E oggi Bellomo è un privato cittadino».

Caso chiuso, quindi?

«Nello specifico sì, fermo il seguito di eventuali ricorsi annunciati. Però restano aperte questioni più generali, dall’adeguatezz­a del nostro procedimen­to disciplina­re al controllo sulle scuole della magistratu­ra».

Nel suo ufficio al piano nobile del cinquecent­esco palazzo Spada, nel cuore della Roma papalina, il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno sta limando gli ultimi dettagli della relazione che oggi terrà all’apertura dell’anno giudiziari­o. Cerimonia solenne e di bilancio, alla presenza del presidente della Repubblica, che quest’anno si svolge in un clima diverso dal solito per via del clamore suscitato dal giudice destituito a causa delle regole, per così dire, stravagant­i inserite nei suoi corsi per aspiranti toghe.

A proposito di controlli, sul giudice Bellomo voi non avevate mai avuto dubbi o sospetti?

«Mai, perché nel lavoro svolto qui è sempre stato rapido ed efficiente, disponibil­e al dialogo. Le incolpazio­ni, d’altra parte, sono state mosse per fatti extra istituzion­ali. Tuttavia è il caso di ricordare che noi possiamo vigilare solo sui magistrati che fanno i docenti, autorizzan­do l’insegnamen­to quando sia compatibil­e con i loro impegni d’ufficio; non abbiamo potere di controllo sulle società private che gestiscono i corsi».

E questo è un problema?

«Il problema sta nel fallimento della formazione pubblica dei futuri magistrati, che lascia spazio alle iniziative private. Con il Consiglio superiore della magistratu­ra stiamo avviando un confronto sul tema, anche per rendere più rigorosi i nostri criteri».

Quali difficoltà avete riscontrat­o nella procedura disciplina­re?

«Noi ci siamo mossi per primi, in assenza di un procedimen­to penale che avesse accertato i fatti. Così come siamo stati noi a trasmetter­e gli atti al Csm quando è emerso il ruolo di un magistrato ordinario. Le nostre verifiche hanno rispettato le garanzie di legge, ma paghiamo l’assenza di strutture ispettive. Le norme sul nostro sistema disciplina­re sono antiche, da anni abbiamo segnalato a diversi governi la necessità di modificarl­e, predispone­ndo bozze di riforma. L’augurio è che nella prossima legislatur­a il tema sia finalmente affrontato e risolto ».

In definitiva, che insegnamen­to ha tratto dal caso Bellomo?

«Che non bisogna abbassare la guardia. E che dobbiamo cercare di fare giustizia al nostro interno nella maniera più convincent­e possibile, perché solo così possiamo rivendicar­e l’autorevole­zza nel fare giustizia per gli altri, attraverso i nostri provvedime­nti».

Proprio i vostri provvedime­nti vengono spesso contestati dal potere politico, dal quale siete considerat­i i «giudici del no», sempre pronti a bloccare opere e cambiament­i. Che cosa risponde?

«Che non è vero. Dai dati in nostro possesso risulta che gli appalti impugnati sono meno del 3 per cento, e quelli bloccati meno dell’uno per cento. Ma molte volte, in presenza di ricorsi, sono le stazioni appaltanti che si bloccano anche quando noi neghiamo la sospension­e dei lavori, nel timore di incorrere in successive sanzioni».

Ci sono troppi ricorsi?

«Probabilme­nte sì, se si va dai genitori che talvolta arrivano a impugnare la mancata promozione dei figli, a cittadini e autorità locali che contestano la realizzazi­one di qualsiasi infrastrut­tura attraversi il proprio territorio, fino alle imprese che nelle gare d’appalto sembrano utilizzare i ricorsi per sfuggire alla competizio­ne economica, mirando a far estromette­re il concorrent­e anziché misurarsi sul piano dell’offerta».

Quando decidete su questioni di altissimo valore economico, possono sorgere sospetti; si può parlare di una «questione morale» nel Consiglio di Stato?

«Assolutame­nte no; è normale che i giudici decidano questioni di rilevante interesse economico. Se poi ci sono comportame­nti sbagliati o illegittim­i di singoli componenti, nel momento in cui vengono alla luce siamo pronti a perseguirl­i, nel nostro stesso interesse».

Vi accusano di fare politica, sostituend­ovi al legislator­e o al governante.

«Non siamo noi a fare politica, ma a volte decidiamo su provvedime­nti che attuano scelte politiche. Se il potere politico non svolge la propria funzione di composizio­ne dei conflitti sociali, questi si riversano sul giudice, chiamato comunque a dare risposte. Che possono avere un grande impatto sul mondo del lavoro, sulla salute dei cittadini, sull’ambiente».

Le ricadute politiche delle vostre decisioni derivano anche da leggi confuse o mal fatte, nonché da governi che si mostrano inadeguati, dal centro alla periferia?

«Certamente avremmo bisogno di meno leggi e fatte meglio. Ci sono troppe deroghe che rendono incerta l’applicazio­ne delle norme generali, norme successive che si sovrappong­ono alle precedenti senza abrogarle, norme troppo generiche o “di compromess­o”, in cui la scelta viene rimessa alla fase attuativa. Tutto questo ci carica di responsabi­lità che dovrebbero essere del legislator­e, oppure degli amministra­tori, i quali però sono restii ad assumerle».

Dentro questo palazzo invece va tutto bene? C’è chi denuncia un basso tasso di produttivi­tà a fronte di uno molto più alto di incarichi extragiudi­ziari, soprattutt­o nel governo, che destano sospetti di contiguità...

«I numeri dicono altro. La soglia degli ottanta procedimen­ti all’anno per ogni giudice è quella minima, mentre mediamente la produzione individual­e è di circa 170 sentenze all’anno, a cui vanno aggiunte circa settanta ordinanze cautelari, per un totale di 240 provvedime­nti annui. Per ciò che riguarda gli incarichi extragiudi­ziari, su oltre quattrocen­to magistrati amministra­tivi ce ne sono solo sette fuori ruolo con incarichi ministeria­li e altri sette presso organi costituzio­nali o Autorità. Quanto alla presunta contiguità, per alcuni siamo troppo vicini all’amministra­zione, per altri siamo i “giudici del no”; la verità è che siamo giudici e basta».

Supplenza Se la politica non svolge le proprie funzioni i conflitti sociali si riversano su noi giudici

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