Processo-show a Trump (con Hillary)
Isedici secondi di Hillary Clinton nella serata dei Grammy probabilmente resteranno nella memoria collettiva più delle performance di Elton John o di Sting. La candidata democratica, la grande sconfitta delle presidenziali, legge un breve passaggio del best seller del momento, «Fire and Fury» il racconto di Michael Wolff del primo anno di Donald Trump alla Casa Bianca. Il presidente preferisce mangiare i burger di McDonald’s, per paura di essere avvelenato. «Com’è andata?» chiede Hillary divertita al conduttore James Corden. «Bene, il prossimo anno può vincere un Grammy». E’ il culmine di una regia costruita fin nei particolari, a cominciare dalle rose bianche distribuite al pubblico, in segno di solidarietà con le vittime di abusi sessuali. A differenza dell’edizione dello scorso anno e anche dei Golden Globe, l’altra sera non abbiamo visto e ascoltato le battute o il discorso di un singolo artista, ma piuttosto la proposta di un manifesto corale, accuratamente pianificato. Lady Gaga ha introdotto il passaggio di consegne con l’«esternazione» di Oprah Winfrey del 7 gennaio scorso: «Time’s up», il tempo è scaduto per i predatori sessuali. Poi è venuto tutto il resto. La difficoltà «di essere un nero onesto in America», di Dave Chapelle; la performance di Bono e degli U2 davanti alla Statua della Libertà, contro «i bulli e gli arrogant»; gli «speech» dell’attrice e produttrice Monae Makes a sostegno del movimento «MeToo» e della cubano-americana Camille Cabello a favore dei «dreamers» i figli degli immigrati irregolari. Il messaggio è chiaro. Il mondo dello spettacolo, del cinema e della cultura si propone come potente amplificatore della protesta delle donne. E, di conseguenza, ha cominciato a istruire un processo, un «impeachment» extra parlamentare, contro Trump.