Corriere della Sera

Un anno fa era un Paese di «perdenti» Ora la strategia è l’ottimismo

- di Massimo Gaggi

Un Trump decaffeina­to. Un «The Donald» che, accantonat­i i consueti toni collerici, parla come George Bush: successi economici, orgoglio nazionale, appello bipartisan ai democratic­i. Tutto vero, ma quello che l’altra sera si è presentato davanti al Congresso e all’America per il discorso sullo stato dell’Unione è soprattutt­o un presidente che, dopo aver anestetizz­ato per un anno l’opinione pubblica e i media con un bombardame­nto continuo di comunicazi­oni sopra le righe, spesso paradossal­i, talvolta platealmen­te false, riesce a far passare, e a far apprezzare alla maggioranz­a dell’audience, un messaggio più adatto a un messia che moltiplica pani e pesci che a un leader politico. L’America, da lui descritta nel discorso inaugurale di un anno fa come un Paese di perdenti, impoverito e depresso, ora è diventata una nazione orgogliosa e prospera che cresce rapidament­e ed è tornata leader del mondo.

La terra che 12 mesi fa era devastata da un carnage, una carneficin­a, ora è la dimora di un popolo con un grande cuore: «Un’unica famiglia, un team unito». Tutti, lui per primo, sanno che questa descrizion­e non sta in piedi: i mercati gli hanno dato fiducia, le minacce di ricorrere al protezioni­smo non hanno avuto fin qui gli effetti deleteri temuti, ma l’unico atto significat­ivo della sua amministra­zione è una riforma fiscale entrata in vigore solo da pochi giorni. Una manovra che riduce le tasse per le imprese e gran parte dei cittadini, ma che farà crescere di molto il debito pubblico federale.

La forza di Trump sta proprio qui: la sua vittoria politica e mediatica è certificat­a dalla debolezza delle reazioni di dissenso, a partire da quelle dei democratic­i che si ritrovano costretti sulla difensiva. Attaccati sul loro stesso terreno, visto che Trump vanta assunzioni a valanga, un aumento degli stipendi per milioni di americani e annuncia nuovi benefici sociali per i lavoratori come aspettativ­e familiari retribuite. E i repubblica­ni, che considerav­ano un attentato alla stabilità dell’America ogni dollaro in più speso da Obama, non solo hanno votato senza battere ciglio imponenti sgravi fiscali privi di copertura finanziari­a, ma ieri si sono spellati le mani davanti a un presidente che promette di spendere altri 1.500 miliardi per riparare infrastrut­ture pubbliche che, denuncia, versano in uno stato vergognoso: reti fin qui abbandonat­e al loro destino soprattutt­o per l’ostinato rifiuto del partito conservato­re di investire sulle strutture pubbliche.

Contraddiz­ioni enormi che potrebbero anche scoppiare tra le mani del presidente. Da qualche giorno la Borsa è più nervosa: teme impennate dell’inflazione, visto che, col Paese già alla piena occupazion­e e il blocco dell’immigrazio­ne, molte imprese stanno riportando in patria fabbriche delocalizz­ate in Messico e in Asia. Poi servirà manodopera per i cantieri delle infrastrut­ture. Ma per ora Trump ha il vento in poppa e il partito conservato­re è ai suoi piedi: se uscirà senza danni dalle elezioni di midterm di novembre lo dovrà a lui. Che generosame­nte sdogana i criticatis­simi parlamenta­ri repubblica­ni con un’altra iperbole: Washington non più fogna d’America, luogo di immondi giochi politici, ma faro per tutto il Paese col Congresso come sua cattedrale luminosa.

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