Corriere della Sera

Il Santo e le «visioni» di Vittorio Così il burbero Niccolò dell’Arca si fece maestro dell’emotività

- di Francesca Bonazzoli

Nel 1455 Bartolomeo Fazio, umanista alla corte di Alfonso d’Aragona, elencava fra gli uomini illustri del tempo i pittori fiamminghi Jan Van Eyck e Roger van der Weyden. È la prova di quanto i rapporti dell’Italia del Sud con Spagna, Francia e Fiandre fossero persino più forti di quelli con la Toscana, visto che, per esempio, Masaccio non viene nemmeno menzionato.

Del resto, basta pensare all’incredibil­e Trionfo della

morte affrescato sul muro del Palazzo Sclafani, a Palermo, per capire come, nel bacino del Mediterran­eo occidental­e, gettassero l’ancora con maggior profitto influssi catalani, valenciani, parigini, lombardi. In questa cultura internazio­nale proiettata sul nord Europa e la Spagna, verso il 1450-60 si formarono anche tre grandi artisti di passaggio a Napoli: il pittore Antonello da Messina e i due scultori Francesco Laurana e Niccolò dell’Arca, quest’ultimo conosciuto anche come Niccolò di Bari il cui San

Domenico apre la mostra ferrarese. Un incipit dal valore sentimenta­le perché l’incontro con questa scultura ha segnato il passaggio di Vittorio Sgarbi dal collezioni­smo di libri a quello di opere d’arte. Il San Domenico, ha raccontato il critico, gli è «apparso» nel 1984 in coincidenz­a con la morte dello zio Bruno così come l’altro lavoro di Niccolò in mostra, il modello dell’aquila realizzato per il San Giovanni evangelist­a, gli venne incontro nel 2015, quando scomparve l’altra persona a lui più cara: la mamma Rina.

Modellato nel 1474 in terracotta, il San Domenico era collocato sopra la porta «della vestiaria» nel convento della omonima chiesa bolognese. Proprio qui, tra il 1469 e il 1473, Niccolò era impegnato a completare il sarcofago di marmo che conserva i resti del santo predicator­e, l’arca da cui deriva il suo pseudonimo.

Niccolò era forse di origine dalmata (la nascita potrebbe collocarsi tra il 1435 e il 1440), ma visse i suoi primi anni in Puglia, a Bari. Sembra che avesse un brutto carattere e che, per questo, non fosse per nulla disposto ad avere allievi. Il frate Girolamo Albertucci de’Borselli, nella sua «Cronica» della città scrive che «Fantasticu­s erat et barbarus moribus […]caput durum habens, consilio etiam amicorum non acquiesceb­at». Dal 1462 è documentat­o a Bologna, dove morì nel 1494, dopo aver realizzato anche il celeberrim­o

Compianto, un’opera di straordina­ria ideazione e qualità, composta da sette personaggi in piedi intorno al corpo disteso di Cristo. La loro disposizio­ne originaria è ancora tema di discussion­e, ma lo storico Massimo Ferretti ha proposto un passaggio progressiv­o dalla figura immobile di San Giovanni, sulla sinistra, a un crescendo di emotività e gestualità che culmina a destra nel drammatico slancio in avanti di Maria di Cleofa.

I gruppi monumental­i, dal carattere popolare e pittoresco, erano comuni a Napoli così come in Borgogna e Linguadoca. Ma per spiegare quel singolare delirio della mimica, oltre a un viaggio in Borgogna, è stato tirato in ballo anche il capriccio di Ercole de’ Roberti e dei ferraresi nonché l’ultimo Donatello. Tuttavia nessuno ne ha mai data un’interpreta­zione teatrale e animata come quella di Niccolò. Forse, al di là delle influenze artistiche, ci voleva proprio il suo temperamen­to «phantastic­us et barbarus».

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Dettaglio Un particolar­e del San Domenico di Niccolò dell’Arca, opera importante nella collezione Cavallini Sgarbi

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