Corriere della Sera

LE ATTESE TRADITE DA ERDOGAN

- di Sergio Romano

La politica, l’economia e la geografia hanno leggi a cui non è facile derogare. Negli incontri con Recep Tayyip Erdogan, durante la giornata romana del presidente turco, parleremo inevitabil­mente di interscamb­io, delle industrie italiane che lavorano nel suo Paese, dei migranti siriani che la Turchia trattiene sul proprio territorio dopo l’accordo stipulato con la Commission­e europea, dell’esistenza di un comune nemico (l’Isis) contro il quale è necessario condivider­e informazio­ni e coordinare strategie.

Ma commettere­mmo un errore se non ricordassi­mo all’ospite che l’Italia ha un particolar­e motivo per deplorare la svolta autoritari­a del suo governo.

Per parecchi anni abbiamo creduto nella evoluzione democratic­a della Turchia. Abbiamo detto a noi stessi e ai nostri partner in Europa che il nuovo Erdogan era alquanto diverso dal militante islamista e ribelle dei suoi anni giovanili (fece qualche mese di prigionia fra il 1998 e il 1999). Abbiamo fatto un investimen­to politico sulla speranza che il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), da lui fondato nel 2001, sarebbe divenuto l’equivalent­e musulmano di una Democrazia cristiana. Abbiamo constatato con piacere che le riforme di Erdogan sembravano avere una influenza positiva sulla evoluzione democratic­a di altri regimi musulmani del Mediterran­eo.

Obiettivo

Si era creduto che la prospettiv­a di aderire alla Ue avrebbe favorito il riformismo

Contro i curdi

Vengono combattuti anche dove sono stati maggiormen­te utili alla guerra contro l’Isis

Quando ci siamo scontrati con le obiezioni e le perplessit­à di altri membri della Ue (Austria, Francia, Germania), abbiamo sostenuto che niente avrebbe favorito il riformismo turco quanto la prospettiv­a dell’adesione alla Unione Europea.

Oggi, invece, siamo costretti a constatare che Erdogan ha tradito le nostre attese e le nostre speranze. Non mi spingo sino a pensare (come altri osservator­i, fra cui Antonio Ferrari sul Corriere) che il colpo di Stato del luglio 2016 fosse soltanto una messa in scena per giustifica­re le incarceraz­ioni e le epurazioni dei mesi seguenti; ma devo riconoscer­e che Erdogan si è servito di quella vicenda per regolare i conti con i militari e con un vecchio alleato, Fethullah Gülen (oggi esule negli Stati Uniti). Non voleva limitarsi a punire i congiurati. Voleva cogliere l’occasione per instaurare un regime duramente repressivo e illiberale.

Chi ha avuto occasione di visitare la Turchia prima del «golpe» ricorda che la rete di istituzion­i scolastich­e e associazio­ni profession­ali tessuta da Gülen nella società turca era una evidente anomalia; ma non tale da giustifica­re la brutalità con cui Erdogan, dopo essersi sbarazzato di avversari e concorrent­i, sta impedendo alla stampa di fare il suo mestiere. Sapevamo che esisteva una questione curda e che ogni governo turco, indipenden­temente dalla sua composizio­ne, avrebbe difeso l’unità nazionale. Ma negli anni in cui il ministro degli esteri era Ahmet Davutoglu, una soluzione sembrò possibile. Dal carcere, in un’isola del Mar di Marmara, il leader curdo Abdullah Ocalan, lanciava segnali di pace che il suo partito sembrava pronto a raccoglier­e. Oggi, invece, Erdogan combatte i curdi anche là dove sono stati maggiormen­te utili alla guerra contro l’Isis.

Occorre che Erdogan non lasci Roma senza sapere ciò che l’Italia pensa della sua politica. La diplomazia ha le sue leggi e vi sono circostanz­e in cui gli interessi possono prevalere su altre consideraz­ioni. Ma il presidente turco deve ricordare che insieme agli interessi esiste nelle relazioni internazio­nali anche un altro fattore, non meno fondamenta­le, che ad Ankara, in questo caso, è stato completame­nte trascurato. Si chiama fiducia.

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