Chiare regole (utili a tutti) sui migranti
Sulla gestione dei migranti, dopo le elezioni del prossimo 4 marzo, servirà una nuova «rotta». Ed è sulla terraferma che ci sarà da cambiare perché il sistema di accoglienza è a pezzi. Ripensarlo sarà un impegno serio. E dovrebbe essere bipartisan.
L’hanno chiamata come la dea della giustizia. Ma è alquanto improbabile che Themis, la nuova missione navale europea dell’agenzia Frontex, renda più giusto l’infernale braccio di Mediterraneo tra Lampedusa e il Nord Africa nel quale naufragano le vite di tanti migranti e il buonsenso di tanta politica nostrana, specie in prossimità del 4 marzo.
Dal punto di vista italiano è lecito, forse, un sospiro di sollievo, ma assai lieve: saremo meno soli, la linea «indicativa» di pattugliamento delle nostre navi (al netto delle emergenze) arretra alle 24 miglia e, soprattutto, si dice, i migranti soccorsi dovranno essere condotti nel porto europeo più vicino (non più necessariamente italiano, come finora è stato). Tuttavia la convenzione di Amburgo del 1979 e le successive norme sul soccorso marittimo prevedono lo sbarco nel primo «porto sicuro» (con attenzione alla geografia ma anche al rispetto dei diritti umani): e l’Italia resta, con la Grecia, il Paese più vicino e attrezzato a gestire questi sbarchi. Inoltre al largo della Libia le navi delle Ong (le organizzazioni non governative al centro delle polemiche dell’ultimo periodo) continuano a operare e a trasportare profughi da noi.
Insomma, è verosimile che poco cambierà nei nostri affanni correnti. Gli sbarchi peraltro sono ripresi nonostante l’inverno, a causa di un quadro politico libico in nuovo peggioramento: i 3.935 arrivi dall’inizio dell’anno al 30 gennaio sono meno dei 4.467 del gennaio 2017 ma segnano un incremento preoccupante rispetto al più recente passato (con una media di 113 sbarchi al giorno contro i 75 di dicembre). A fronte di un grave problema congiunturale impacchettato in un disastroso problema epocale (nei prossimi 40 anni c’è chi prevede un miliardo di sfollati nel mondo), la risposta della nostra politica è la solita rissa.
Eppure la questione migratoria starebbe, in fondo, dentro una forbice pragmatica: non si possono non salvare i profughi in mare, non si può non garantire la sicurezza degli italiani in terraferma; a seconda dell’orientamento di chi governa (e prescindendo da motivazioni etiche), può variare la percentuale d’applicazione di questi due postulati ma nessuno dei due può essere ignorato, per ovvie ragioni legate tanto al consesso internazionale quanto alla tenuta del patto sociale interno.
Di fatto, insomma, la forbice pragmatica finisce per tagliare le posizioni più estreme. Che tuttavia riemergono suggestive, avvelenando l’opinione pubblica. Così, nelle pieghe del dramma costato la vita alla giovane romana Pamela forse per mano di uno spacciatore nigeriano richiedente asilo, ecco che la destra sovranista torna a invocare un «blocco navale». Sarà il caso di rammentare che il blocco navale è un’azione militare (disciplinata anche dallo statuto Onu); gli Usa, per dire, bloccarono Cuba durante la crisi dei missili: noi chi dovremmo bloccare? Barconi con fuggiaschi agonizzanti? Gommoni con bimbi in fasce? Può essere plausibile? Non più dei «cento rimpatri al giorno» promessi da Salvini in tv, come se i rimpatri fossero possibili senza accordi bilaterali (ne abbiamo solo quattro con l’Africa maghrebina più una discussa «cooperazione giudiziaria» col Sudan). Rimpatriare 29 tunisini a maggio, ricordava Emma Bonino, ha peraltro implicato «una gara d’appalto per trovare un charter, 71 poliziotti, un medico, un assistente sociale e un interprete».
Non meno declamatorio è del resto l’atteggiamento di certa sinistra-sinistra che, in asse con Medici Senza Frontiere e altre organizzazioni umanitarie anche nobili, accusa il governo italiano proprio per il calo degli sbarchi (clamoroso durante il 2017 per effetto degli accordi tra il ministro Minniti e i capi delle comunità libiche). «Quel calo significa aumento delle torture», ha detto Joanne Liu, presidente internazionale di Msf. Senza spiegarci tuttavia cosa avrebbe dovuto fare l’Italia, abbandonata dai partner europei e isolata ai confini, a fronte di 12 mila arrivi in un solo fine settimana lo scorso giugno: poiché questo era il trend, prima della svolta.
Dopo le elezioni, chiunque vinca avrà davanti un sentiero assai lontano da slogan velleitari. Con tappe inevitabili. La prosecuzione del lavoro in Libia (ove sarà possibile) e in Niger, ovvero nei due crocevia del traffico di esseri umani. L’aumento della nostra presenza militare, assieme alla Ue e all’Unione Africana, in operazioni di nation rebuilding dei troppi Stati falliti o fantasma.
Il ricollocamento dei profughi: finora i Paesi dell’Est europeo si sono fatti beffe di noi, ma il problema tocca anche la lentezza delle nostre procedure.
Più che in mare, dove umanità e onore sono coordinate ineludibili, è sulla nostra terraferma che ci sarà da cambiare: il sistema d’accoglienza è a pezzi e dalle sue crepe sono usciti i 500 mila «invisibili» sparsi negli anni dentro le pieghe delle nostre periferie. Ripensarlo e rifondarlo sarà un impegno serio: potrebbe essere almeno bipartisan.
In fondo, a urne chiuse, potrebbe convenire a tutti che la prossima divinità celebrata nel Mediterraneo sia Atena, dea della saggezza.
Tappe inevitabili Dovremo proseguire il lavoro in Libia e in Niger, i due crocevia del traffico di esseri umani