Corriere della Sera

«Marco, il rogo e la mia vita nel rimpianto»

Giannino Gottardi Il papà del 28enne morto con la fidanzata a Londra nella Grenfell Tower: «Conservo il suo ultimo messaggio di 8 secondi»

- di Stefano Lorenzetto

«Sulla lapide ci sono due libellule. Mia moglie crede che siano un segno». Giannino Gottardi, il papà di Marco, morto nel rogo della Grenfell Tower a Londra, racconta al Corriere quegli attimi con la torre in fiamme e il rimpianto per non aver avuto altri figli.

La villa dei genitori, a San Stino di Livenza, si affaccia sul cimitero. All’architetto Marco Gottardi, bruciato a 28 anni con Gloria Trevisan nel rogo della Grenfell Tower di Londra il 14 giugno 2017, questa nuova ala del camposanto piacerebbe. Tiranti d’acciaio, vele in legno, tanto verde. Suo padre Giannino va lì tutti i giorni. Da casa, sono 730 passi. La lapide che chiude il loculo è una matrice per litografia all’incontrari­o, una foto impressa nel marmo. I fidanzati sorridono dal cielo azzurro, nel quale si librano due libellule. «Marco e Gloria insieme per sempre», c’è scritto. Anche se lei riposa altrove, a Camposampi­ero.

Nel giardino dei Gottardi, il melograno a cui Marco tendeva la pargoletta mano, come in Pianto antico, è strinato dal gelo. Nessuno ne coglie più i frutti, che ora pendono anneriti dai rami. Papà Giannino è appena tornato dalla capitale inglese. Sette mesi, ci ha messo, prima di accettare questo pellegrina­ggio del dolore insieme con la moglie Daniela. «Abbiamo incontrato la coroner Fiona Wilcox, scoprendo che per quasi due ore i vigili del fuoco ordinarono ai residenti di rimanere dentro gli appartamen­ti con le porte sbarrate. Una follia. È stata una parziale consolazio­ne apprendere che Marco e Gloria non sono morti arsi vivi. Li ha uccisi prima il monossido di carbonio. I detriti della torre, coprendoli, hanno risparmiat­o i corpi dalle fiamme. Ci sono stati consegnati gli indumenti di mio figlio, solo in parte bruciacchi­ati. Carta d’identità, patente di guida, tessera sanitaria, sterline, carte di credito erano integre. Mia moglie ha tenuto un brandello del trench che Marco s’era comprato a Londra». Avete visto lo scheletro della Grenfell Tower?

«Non ce la siamo sentita di andare sul posto. Abbiamo preferito incontrare Diego Dalpra e Alessandro Penna, titolari dello studio di architettu­ra Ciao dove lavorava nostro figlio, e Peregrine Bryant, fondatore di quello che dava lavoro a Gloria. “Due ragazzi bravissimi, dalle potenziali­tà enormi”, ci hanno detto. Per un attimo, è come se ce li avessero restituiti in vita». Perché quelle due libellule sulla lapide?

«Mia moglie crede che siano un segno. Le trova ovunque. Sui fiori davanti alla tomba. Sul cruscotto dell’auto nonostante i finestrini chiusi. Nella nostra casa di vacanze a Caorle. Ne porta due, d’argento, anche al collo». Un legame speciale.

«Gli ultimi tre mesi di gravidanza li passò fra letto e poltrona per una minaccia d’aborto. L’aveva voluto a tutti i costi, questo figlio». Che ragazzo era Marco?

«Buono, riflessivo, determinat­o, all’antica: fu l’ultimo della classe, in terza media, ad avere il cellulare. E altruista. Si diplomò geometra con 96. Noi ci aspettavam­o il 100. Allora ci confessò che aveva rallentato per non umiliare i compagni facendo il secchione all’esame di maturità. Dallo Iuav di Venezia uscì invece con 110 e lode». Perché emigrò?

«Nello studio d’ingegneria a San Donà di Piave guadagnava 400 euro al mese. Voleva dimostrare di riuscire a farcela da solo. A Londra lui e Gloria potevano permetters­i di pagare l’affitto al 23° piano, l’ultimo, della Grenfell Tower. Un appartamen­to

nuovo di zecca, con una vista stupenda. Mia moglie e io andammo a trovarli dal 21 al 24 aprile. Fu l’ultima volta che vedemmo nostro figlio vivo». Quando aveva conosciuto Gloria?

«Nel 2014. Prima era stato fidanzato per quattro anni con Chiara. Ci è rimasta vicina». Si sarebbero sposati?

«A mia moglie, che le manifestav­a il suo rammarico per non aver dato un fratello a Marco, Gloria disse: “Non preoccupar­ti, i nipotini te li facciamo noi”». Come padre ha lo stesso rimpianto?

«Più che il rimpianto, ho il rimorso del figlio unico. Per egoismo non ne ho voluto un altro». C’entra la carriera?

«Non direi, anche se ero responsabi­le del Cerved per il Nordest. In realtà mi sarebbe piaciuto avere due gemelli, ma poi basta. Mia moglie ha sofferto tantissimo per la mia scelta. E anche Marco. A 6 anni sbottò: “Se non mi fate un fratellino, comincio lo sciopero della fame”. Oggi, almeno, mi rimarrebbe qualcosa». Come seppe della tragedia?

«Dovevamo partire di notte per una vacanza. Alle 3.45 la mamma di Gloria informò mia moglie dell’incendio scoppiato nella Grenfell Tower. Marco non ci aveva chiamato per non impensieri­rci. Lo cercai subito sul cellulare. La voce non era concitata. Voleva convincerm­i che i vigili del fuoco avrebbero risolto l’emergenza». Lei gli credette?

«Per dieci minuti. Quando vidi in diretta su Sky la torre che bruciava, capii che era la fine». Lo capì solo da quello?

«Poi Gloria disse alla mia futura consuocera: “Mamma, sto morendo”, e recitò l’Ave Maria». Restò al telefono con suo figlio fino all’ultimo?

«Le comunicazi­oni s’interrompe­vano spesso. L’ultima risale alle 4.10. Un messaggio registrato da Marco nella segreteria del mio cellulare». Che cosa dice?

«È dura...». (Gli occhi si riempiono di lacrime). «Non l’ho mai riferito a nessuno». Sono venuto sin qui apposta.

«È un saluto di otto secondi: “Non riesco a capire perché cade in continuazi­one la linea. Vi voglio bene. A tutti e due, te e la mamma”. Sapeva di dover morire, ma temeva di spaventarc­i. Mi scostai perché mia moglie non udisse il messaggio. Daniela si accasciò sul divano. Pregò tanto, ma fu inutile. Continuai a formare il numero per un’altra mezz’ora. Dava libero. Però Marco non rispondeva più. Smisi di chiamare».

L’avvocato Maria Cristina Sandrin, che tutela i genitori di Gloria, ha dichiarato: «I rivestimen­ti utilizzati nella Grenfell Tower erano materiali di scarto utilizzati nell’edilizia 30 anni fa».

«Altamente infiammabi­li, sì. Hanno voluto risparmiar­e 6.000 sterline. Pensi fin dove conduce l’avidità umana». Le vittime quante furono? Non s’è mai capito.

«Chi dice 87, chi 71, chi 70. Ufficialme­nte 79. Io mi sono fatto una mia opinione». Quale?

«Furono più di 80. Del resto in quella torre abitavano 500 persone. Il fuoco si sprigionò dal quarto piano, dunque si presume che si siano messi in salvo solo gli inquilini da lì in giù». Che senso avrebbe truccare il bilancio finale?

«Non dimentichi che per questa catastrofe il governo britannico ha rischiato di cadere». Chi ha riconosciu­to la salma di suo

figlio?

«Io dovevo assistere mia madre Ida, 93 anni. È morta l’ultimo giorno del 2017 con questo strazio nel cuore. Marco è stato identifica­to dal Dna di due scarpe da calcio che ho consegnato a un amico architetto. L’hanno trovato abbracciat­o a Gloria. I corpi sono tornati in Italia dentro casse di zinco sigillate».

Lo sa che non esiste una parola per definire la condizione sua e di sua moglie? I figli possono restare orfani, i coniugi vedovi. Ma i genitori che perdono i loro ragazzi non hanno nome.

«Né nome, né null’altro. Riempio le giornate con la fondazione Grenfellov­e. Abbiamo scelto di chiamarla così perché l’amore è più forte della morte. Vogliamo premiare i più bisognosi fra i dieci migliori neolaureat­i dello Iuav che studierann­o la sicurezza degli edifici. Il 26 giugno La Fenice di Venezia ci concederà di celebrare il compleanno di Marco nelle Sale Apollinee del teatro. Sto pensando a come farlo». Questo la consola?

«Ho trovato una nuova famiglia. Per l’ultimo compleanno, 12 giorni dopo la sua morte e 24 prima del funerale, qui a casa c’erano 50 amici di Marco e Gloria. Vengono a trovarci a tutte le ore. Il 23 dicembre ci hanno portato in pizzeria per gli auguri di Natale. A tavola eravamo in 38». Ho capito: la consola.

«Ma quando mi sveglio e quando mi corico, è terribile. Mi sento solo, vulnerabil­e». Ha mai rivisto suo figlio in sogno?

«A mia moglie succede di continuo. Io l’ho rivisto tre volte, l’ultima dieci giorni fa. Eravamo a Caorle e Marco, ragazzino, doveva partire con un ricco emiro. Per dove, non lo so. Però in famiglia eravamo d’accordo, A noi non è questo è toccato l’importante». emigrare, ai nostri figli sì, come accadeva qui in Veneto ai loro bisnonni. In che cosa abbiamo sbagliato, signor Gottardi?

«Per la paura di tornare poveri, abbiamo creato una società che tutela solo noi stessi. Marco m’invidiava perché sono nato nel 1955. “Tu hai potuto vivere nel periodo del boom”, mi diceva».

Con quei baffi d’altri tempi, suo figlio mi ricorda le foto dei soldati della Grande guerra sepolti nel Cimitero degli Eroi di Aquileia.

«È morto anche lui così, in una guerra combattuta senz’armi, che uccide i giovani». Vorrebbe raggiunger­lo?

«Mia moglie sì, per lei sarebbe l’unico modo di ritrovare la pace. Io mi sforzo di resistere». Crede che ci sia il paradiso, dopo? «Credo L’inferno che no, ci sia perché qualcosa. ci siamo Ma già che dentro». cosa?

Sapeva che non ce l’avrebbe fatta Mi scostai perché mia moglie non udisse quelle parole di addio Lei pregò tanto, ma fu inutile

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I volti Giannino Gottardi, padre di Marco, con il ritratto del figlio e di Gloria. Sotto, la tomba di Marco nel cimitero di San Stino di Livenza (foto di Daniela Pellegrini)
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