«Abusi del Fbi per colpire Trump» Il memo che incendia Washington
Pubblicato il documento dei repubblicani. Il presidente: «Indagini politicizzate»
Cinque «capi di accusa» all’Fbi. Diversi bersagli intermedi e uno finale. La lista si apre con l’ex direttore dell’Agenzia James Comey, licenziato il 9 maggio 2017 da Donald Trump. Poi vengono i vertici del Dipartimento di Giustizia considerati ostili al nuovo presidente: il sottosegretario Bruce Ohr, la vice ministro Sally Yates, anche lei rimossa da Trump e, infine, il vice ministro Rod Rosenstein, ancora in carica.
Secondo il rapporto preparato dalla commissione Intelligence della Camera, questo gruppo di funzionari dello Stato avrebbe condotto indagini inquinate da un pregiudizio anti trumpiano a carico di Carter Page, ex consigliere per la politica estera nel comitato elettorale dell’allora candidato repubblicano. La Commissione ha deciso ieri mattina di rendere pubblico il memo, dopo aver ricevuto il via libera del presidente, cui competono i poteri costituzionali di «declassificare» informazioni considerate sensibili.
A questo punto lo scontro è totale. La minoranza democratica della Commissione, guidata da Adam Schiff, ha pubblicato un «contro documento». L’obiettivo reale di tutta questa operazione è molto chiaro: delegittimare i metodi e quindi anche il lavoro complessivo di Robert Mueller, il Super procuratore che indaga sul Russiagate, cioè il sospetto di una collusione tra il clan Trump e il Cremlino per danneggiare la corsa di Hillary Clinton. Il presidente americano, ieri, ha twittato: «I vertici del Fbi e del dipartimento di Giustizia hanno politicizzato le sacre procedure inquirenti a favore dei democratici e contro i repubblicani. È una cosa che sarebbe sembrata impensabile solo poco tempo fa».
La ricostruzione del memo parte dal 21 ottobre 2016, il giorno in cui Fbi e dipartimento di Giustizia ottennero l’ok a mettere sotto controllo elettronico un advisor di Trump: Carter Page, appunto, 47 anni, un esperto del mercato petrolifero russo.
I parlamentari repubblicani della Commissione, sospinti dal loro presidente Devin Nunes, scrivono che i sospetti su Page erano fondati su materiale screditato; il rapporto compilato dall’ex agente dei servizi britannici, Christopher Steele. «Un personaggio da lungo tempo fonte del Fbi — si legge — che era stato pagato con oltre 160 mila dollari dal comitato elettorale di Hillary Clinton, attraverso l’istituto di ricerca Fusion Gps, per ottenere materiale compromettente sui legami tra Donald Trump e la Russia».
Ma questi dettagli importanti su Steele, aggiunge il memo, non furono riportati nella richiesta di autorizzazione del Fbi per ottenere il permesso a intercettare Page. Non solo: Steele aveva confidato al funzionario del Dipartimento di Giustizia, Bruce Ohr, «il suo disperato desiderio che Donald Trump non fosse eletto». Ma neanche questa considerazione, ottenuta dal Fbi nel settembre del 2016, fu menzionata nella richiesta di autorizzazione inviata alla Corte un mese dopo.
L’ultimo punto chiama in causa George Papadopoulos, altro consigliere nella campagna di Trump: «Non c’era alcuna evidenza di una cospirazione tra Page e Papadopoulos». Ma il 27 luglio 2017 Papadopoulos fu arrestato dal Fbi e il 5 ottobre confessò di aver mentito agli agenti sui contatti con i russi. È uno dei tanti pezzi della storia che mancano nel memo e che sono, invece, nelle mani di Mueller.
Democratici in rivolta La replica: l’obiettivo reale del memo è di screditare le indagini sul Russiagate