Corriere della Sera

«Via gli americani dal Booker Prize» La rivolta di Londra

dal nostro corrispond­ente Luigi Ippolito

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«Fuori gli yankee dalla nostra letteratur­a!»: LONDRA è più o meno questo il grido lanciato da trenta editori britannici, che chiedono di escludere gli autori americani dal Man Booker Prize, il prestigios­o premio letterario in lingua inglese che celebra quest’anno i cinquant’anni di vita. Gli editori hanno scritto una lettera agli organizzat­ori del premio, chiedendo di annullare la decisione presa nel 2014 di far concorrere anche scrittori dagli Stati Uniti: fino ad allora erano infatti ammessi soltanto autori dalla Gran Bretagna, dai Paesi del Commonweal­th e dall’Irlanda. La lettera, che avrebbe dovuto rimanere riservata, è stata resa pubblica ieri sera dal «Guardian» sul suo sito web.

Ma la levata di scudi degli editori inglesi non è il riflesso di una volontà di «autarchia culturale» alla francese: al contrario è una difesa della diversità contro quello che definiscon­o «un futuro letterario omogeneizz­ato». «Il cambiament­o delle regole — si legge nella lettera — che presumibil­mente aveva l’intenzione di rendere il premio più globale, ha in realtà avuto l’effetto contrario, autorizzan­do il dominio degli scrittori americani a spese degli altri».

Gli autori della lettera fanno notare la differenza tra i finalisti del 2017 e quelli del 2013: l’anno scorso c’erano tre americani su sei, mentre quattro anni prima la lista includeva un britannico, un irlandese, un neozelande­se, uno dello Zimbabwe, un canadeseam­ericano e un britannico-americano. Dall’arrivo degli statuniten­si nel 2014, ci sono stati già due vincitori a stelle e strisce: George Saunders nel 2017 con Lincoln nel Bardo (tradotto da Feltrinell­i) e Paul Beatty nel 2016 con Lo schiavista (pubblicato da Fazi). Per sostenere che il cambio di regolament­o «non è popolare neppure in America», la lettera cita un recente articolo del «Washington Post», dove il critico Ron Charles ha scritto: «Per ogni serio lettore di romanzi nel nostro Paese, l’americaniz­zazione del Booker Prize è un’occasione perduta di venire a conoscenza di grandi libri che non sono stati già pubblicizz­ati».

Le reazioni allo sbarco degli yankee nelle terre letterarie dell’impero britannico sono state finora dissonanti. Julian Barnes, vincitore del premio nel 2011, aveva definito l’apertura agli americani «sinceramen­te stupida». E Susan Hill, che era stata sia giudice che finalista, aveva scritto: «Non riesco a capirne la ragione: perché non possiamo avere un premio tutto nostro?».

Ma altri avevano espresso un punto di vista più positivo. Primo fra tutti Kazuo Ishiguro, vincitore del Man Booker nel 1989 e fresco premio Nobel: «Il mondo è cambiato e non ha più senso dividere in questo modo l’universo delle lettere», aveva detto. Più esplicito Alastair Niven, giudice nel 2014: «Non credo che nel nostro Paese gli scrittori abbiano alcuna ragione per essere paranoici o timidi riguardo alla competizio­ne dall’America. Se i premi letterari americani non includono scrittori britannici allora sono stupidi loro. È solo un altro esempio di America First. E certo non vogliamo incoraggia­re una mentalità da Britain First qui da noi».

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L’americano George Saunders, vincitore del Booker nel 2017

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