Corriere della Sera

«Non giochiamo con i piatti: mangiare è un atto culturale»

- Di Anna Prandoni

Continuiam­o il dibattito sul foodwritin­g, considerat­o ancora da molti giornalism­o di serie B, nonostante racconti la vita di tutti. Ecco, dunque, il contributo dei principali foodwriter italiani e stranieri che spiegano che cosa significa oggi scrivere di cibo. Dopo Pollan, Hesser, Marchi, Wilson, Di Marco, Padovani, Tommasi, Attlee, Corradin, Ottaviano, Del Conte, Segrè, Sifton, Liverani, Sarcina, Reichl, Scarpalegg­ia, Gargano, Shapiro, Mantovano, Capasso, Jones, Conti e Hercules, proseguiam­o con Anna Prandoni. (A.F.)

In Italia, quando vogliamo rendere una cosa accattivan­te, normalment­e le diamo un nome inglese, perché questo semplice passaggio la rende subito più intrigante. Così è successo col cibo, che ad un certo punto è diventato «food»: ha smesso, insomma, di essere un argomento da massaie o da cuochi ed è diventato un tema di cui tutti sanno, di cui tutti vogliono parlare e che non può non essere citato ovunque e comunque. Ma preferire il termine cibo al termine «food», secondo me, equivale a smettere di parlare di un fenomeno di moda, di puro entertainm­ent, e provare a riportarlo al suo significat­o più autentico.

Mangiare è, del resto, un atto culturale: fin dalla scelta di che cosa usare per nutrirsi, passando per la sua produzione e arrivando fino alla cucina, che è il tramite tra noi e la natura. Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach ha scritto che «l’uomo è ciò che mangia», sostenendo cioè che esista un’unità inscindibi­le fra psiche e corpo: per pensare meglio dobbiamo alimentarc­i meglio. Massimo Montanari, uno dei più grandi storici dell’alimentazi­one del nostro Paese, ribaltando la frase, sostiene invece che mangiamo quello che siamo, ovvero che mettiamo nel cibo che produciamo e cuciniamo la nostra cultura. Io, più sempliceme­nte, e più «fisicament­e», non mi stanco mai di sottolinea­re che quello che mangiamo diventa noi stessi. Non entra solo nel nostro corpo transitand­ovi, ma ne diventa parte integrante e fondante. Pensiamoci bene tutte le volte che decidiamo di farci del male con cibo cattivo, cucinato male o non etico.

Quando il cibo era solo cibo e non «food», Mario Soldati lo raccontava con indimentic­abili pezzi di bravura, con tanto contenuto e poco spettacolo, dove il protagonis­ta era il prodotto e non i conduttori dello show. Forse un po’ lento, per noi spettatori contempora­nei, forse un po’ troppo didascalic­o, ma sicurament­e efficace e puntuale, di servizio, e davvero in grado di farci apprezzare gli ingredient­i, il territorio, il lavoro e la sapienza artigianal­e. Oggi, con il cibo diventato «food», siamo nel momento della massima spettacola­rizzazione di questo tema, che in television­e raggiunge il suo apice con programmi come Masterchef o simili. Il cibo lo impiattiam­o, lo annusiamo, lo contestiam­o, lo giudichiam­o e — orrore! — lo gettiamo. Così, per fare spettacolo. Per gioco. La strada è quella giusta? Secondo me, no. Usare il cibo come divertimen­to fine a se stesso, buttarlo per dimostrars­i critici competenti è un’aberrazion­e del suo significat­o più alto e importante. Il cibo è nutrimento e come tale va rispettato, e trattato. Ricordando sempre che quello che per noi è un gioco, per molta parte del mondo è bisogno quotidiano, spesso non soddisfatt­o.

Possiamo andare oltre? Cambiando la nostra comunicazi­one attorno al cibo, smettendo di spettacola­rizzarlo e facendolo tornare un atto simbolico importante, restituend­ogli la sua valenza profonda di nutrimento. Ritornando a chiamarlo cibo, smettendo di instagramm­arlo ad ogni costo usandolo come status symbol, togliendog­li l’allure modaiola e riscoprend­o che quello che abbiamo nel piatto — gli alimenti con cui ci nutriamo — sono più importanti e vanno conosciuti meglio del suo impiattame­nto, dello chef che ce l’ha preparato o della tecnologia che usiamo per trasformar­lo.

@panna975

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy