Da Cicerone a Versailles Se i giardini raccontano gesta e vanità dell’uomo
Statue, grotte, fontane. E la natura diventa «artificiale»
Se qualcuno pensa che il giardino sia nato come un ambito in cui ritirarsi per contemplare in solitudine lo spettacolo della natura si sbaglia di grosso; il giardino è sin dagli esordi un ambiente artificiale, nato per soddisfare il senso estetico e emozionale dell’uomo. Sul senso di questa artificialità i teorici contemporanei hanno speso molte parole; nulla di davvero nuovo però rispetto a quanto già nel primo secolo avanti Cristo aveva scritto in maniera esaustiva Marco Tullio Cicerone nel suo De natura deorum.
«È opera nostra lo sfruttamento dei monti e delle pianure, i fiumi ed i laghi sono in nostro potere, siamo noi che seminiamo i cereali, che piantiamo gli alberi, che fecondiamo i terreni con opere di canalizzazione e di irrigazione, che arrestiamo, che incanaliamo, che deviamo il corso dei fiumi, che ci sforziamo, in ultima analisi, di costituire in seno alla natura una specie di seconda natura». Già ai tempi di Cicerone la natura trasformata dall’uomo aveva irrimediabilmente perso i suoi caratteri originali per divenire altro: appunto una seconda natura.
E fra le varie forme nelle quali questa seconda natura è stata coniugata, il giardino ha costituito la tipologia più duttile, capace di trasmettere una molteplicità di suggestioni e livelli di lettura. Il giardino ha raccontato miti, proposto allegorie, è stato simbolo di capacità tecnica, ricchezza di mezzi, possesso di luoghi, come sapevano benissimo regnanti e potenti d’ogni dove.
Nella sua villa realizzata nei pressi di Tivoli ed iniziata verso il 120, attraverso giardini e sistemazioni naturali, Adriano vi volle evocati luoghi e paesaggi dell’impero. Altri imperatori avevano all’epoca già sperimentato qualcosa di simile; all’altro capo del mondo, in Cina, nel II secolo a.c., venne creato un gigantesco parco, lo Shang Lin, all’interno del quale fu formata una miniatura dell’immenso reame: una collezione dei suoi panorami, con alture boscose e laghi.
L’autorità si nutre di simboli e il giardino ne ha nel tempo offerti di poderosi: quelli della fertilità come favore divino, dell’esotismo vegetale come metafora imperialista, della meraviglia come attestazione di padronanza su arti e scienze.
Ecco allora apparati idraulici studiati dai più celebri ingegneri per fontane e giochi d’acqua. Come la Machine de Marly, la poderosa macchina idraulica fatta realizzare da Luigi XIV lungo la Senna per elevare di quasi duecento metri l’acqua del fiume e rendere realizzabile quella stravaganza che fu Versailles. Un immenso parco solcato da mastodontici specchi d’acqua realizzato in un sito dove l’acqua non c’era.
Ecco gli architetti più in voga comporre i giardini e gli scultori più celebri a dare forma a statue, grotte artificiali, fontane musicali, perché l’intera composizione verde si mutasse in una narrazione capace di magnificare il gusto e le fortune familiari del proprietario del giardino. Come quella colossale statua dell’appennino, alta oltre dieci metri, e contenente all’interno stanze di ricchissima decorazione, che Francesco I de’ Medici commissionò a Giambologna per la sua Villa di Pratolino, onde sbalordire i propri ospiti.
In tempi più recenti il senso di artificialità del giardino è stato messo a frutto, per mostrare la modernità delle grandi città. Se Parigi si conquistò la denominazione di Ville Lumière per l’essere la prima capitale illuminata a gas, fu anche la città dove si inventò l’arredo standardizzato dei giardini.
Fra i decenni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo, all’epoca di Napoleone III, Parigi ebbe il primo sistema al mondo di parchi e giardini pubblici corredati di una gamma di manufatti standardizzati: gazebi, chioschi, cancellate, panchine, bacheche per manifesti, fontanelle. Tutti di grande qualità, ma soprattutto in ghisa stampata, un materiale nuovissimo che acuiva il senso di modernizzazione che i nuovi giardini stavano portando alla città.
Ed anche in tempi apparentemente ben più sensibili alla naturalità non violata dall’uomo come i nostri, la ricerca di artificialità estrema nel giardino non sembra essere scemata; cosa sono quei frammenti di verde che l’architettura contemporanea ingloba (Milano docet con il suo Bosco verticale), se non la prosecuzione di quella sempiterna impresa di domesticazione del naturale, che Cicerone aveva già evidenziato un paio di millenni addietro? Un vecchio vizio ben difficile da perdere.
Franco Panzini è architetto
e paesaggista