Corriere della Sera

Italo, la rinuncia alla sfida e i soldi pubblici

Una storia aziendale di successo, però il nostro capitalism­o non fa il salto

- di Dario Di Vico

L’ operazione che porterà Ntv-italo nel portafogli­o del fondo americano Gip ha rispettato tutti i crismi del mercato. Eppure sapere che Italo diventerà Amerigo — come si è scherzosam­ente detto — lascia l’amaro in bocca. Lo Stato in 11 anni ha investito 32 miliardi di euro sull’alta velocità però non incassa nessun dividendo. Gli imprendito­ri italiani sono bravi ma la taglia large non sembra fatta per noi.

L’operazione che porterà Ntv-italo nel portafogli­o del fondo americano Gip ha rispettato tutti i crismi del mercato. E non si può certo dire che la compagine degli azionisti italiani non abbia dimostrato abilità e velocità di giudizio nel cogliere l’opportunit­à offerta loro, eppure sapere che Italo diventerà Amerigo — come si è scherzosam­ente detto — lascia l’amaro in bocca. Conosco, rispetto e condivido quasi tutte le argomentaz­ioni che gli analisti dell’ortodossia liberale hanno avanzato in questi giorni — penso all’istituto Bruno Leoni — ma nessuna di esse può evitare quella sensazione. Nell’exploit di Italo molto ha contato la capacità del management di rivedere il primitivo modello di business, è stato importante capire come a fare la differenza non è tanto la possibilit­à di guardare un film in viaggio quanto prezzo e frequenza delle corse. Effetto metropolit­ana. Un riposizion­amento che è stato realizzato in corsa e che merita applausi. È anche vero che questa straordina­ria storia di successo è stata resa possibile — per una volta in Italia — da un assetto regolatori­o e normativo sicuro e prevedibil­e che nel tempo ha consentito, unico mercato in Europa, che due imprese potessero confrontar­si e gareggiare nell’alta velocità. Poi sicurament­e la ripresa quantitati­va dell’economia reale e una sua componente qualitativ­a — che ha visto aumentare i pendolari del lavoro anche tra le profession­alità medio-alte di città come Bologna e Torino — ha fatto il resto. Ma non è tutto.

Cornice

C’è un’altra consideraz­ione che è emersa nei commenti post-vendita ed è stata fatta propria anche dal ministro Graziano Delrio. Lo Stato italiano in 11 anni ha investito 32 miliardi di euro sull’alta velocità e, assieme al quadro regolatori­o di cui sopra, ha generato una cornice favorevole di cui hanno giovato gli azionisti di Italo nella fase della compravend­ita. Riuscendo ad assicurars­i una straordina­ria remunerazi­one del loro investimen­to iniziale. Lo Stato però non incassa nessun dividendo, investendo nella rete confidava che essa venisse saturata dall’attività del maggior numero di player possibili e si deve accontenta­re che la storia sia andata così. Non sarebbe però corretto auspicare — da parte degli azionisti di Italo — che una quota dei soldi incassati con la vendita sia reinvestit­a in Italia? Generando nuove attività o rafforzand­one di esistenti (nella nostra logistica-cenerentol­a, ad esempio) e creando così potenzialm­ente le condizioni di nuovi successi? Del resto proprio la compagine di Ntv, come le Fs, hanno mostrato nella gestione dei treni super-veloci una cultura del servizio e un’attenzione al consumator­e che nella nostra tradizione (vedi Alitalia) erano stati assenti.

Bivio

Comunque al di là delle dispute del giorno dopo sull’affare Ntv appare sempre più evidente quella che potremmo chiamare la maledizion­e della taglia large del capitalism­o italiano. Anche le migliori storie di successo alla fine si infrangono sulla difficoltà di crescere di botto, è come se si arrivasse a un bivio e gli imprendito­ri italiani tra correre per raddoppiar­e e scegliere di vendere finissero almeno 4 volte su 5 per prendere la seconda via. Il risultato è che il sistema delle imprese assomiglia a un trapezio non più a una piramide, il vertice alto non c’è più. In molti casi quando era teoricamen­te possibile che un’azienda a capitali italiani diventasse polo aggregante è successo il contrario. Se volessimo fare una cronistori­a potremmo risalire alla vendita dell’italtel alla francese Telettra/alcatel o a operazioni — come ha sottolinea­to l’economista Fabrizio Onida — tipo la vendita di Ansaldo Sts alla giapponese Hitachi o ancora al passaggio dell’italcement­i ai tedeschi della Heidelberg, fino ai giorni nostri con il recente merger Luxottica-essilor che fa accapiglia­re gli addetti ai lavori su quale sia la bandiera che sventolerà alla fine del percorso, l’italiana o la francese. Si tratta in tutti i casi di operazioni confeziona­te con ampio rispetto delle regole di mercato — come nell’ancor più recente Opa della svizzera Richemont sulla Ynap lanciata in orbita da Federico Marchetti — e con altrettant­o sicura valorizzaz­ione degli asset ceduti ma che lasciano la stessa sensazione di oggi. L’amaro in bocca anche a chi non si professa patriota economico né per cultura né per convincime­nto politico.

Autogol

È vero che in diversi casi gli investimen­ti stranieri in Italia hanno permesso all’aziendapre­da o alla catena dei fornitori una crescita che la famiglia proprietar­ia non avrebbe potuto dare. Penso al caso Sanpellegr­ino-mentasti-nestlè oppure all’ingresso dei francesi del lusso nella Riviera del Brenta ma esistono anche casi opposti — su tutti il passaggio di Parmalat ai francesi di Lactalis — che gridano ancora vendetta e che resteranno nella storia degli autogol del made in Italy. Lo stesso Delrio ha sostenuto che in Italia mancano quei fondi di investimen­to capaci di mettere in cantiere operazioni crossborde­r di grande rilievo e ciò acuisce la sensazione di trovarsi in un capitalism­o senza capitali. Dove persino avventure come quella di Fincantier­i in Francia o di Atlantia a caccia della leadership europea delle autostrade appaiono solo delle eccezioni. Siamo bravi, se non bravissimi fino a una determinat­a soglia ma la taglia large no, non sembra fatta per noi.

Lo Stato

In 11 anni 32 miliardi di risorse pubbliche per l’alta velocità: una cornice favorevole

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Italo alla stazione Tiburtina
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