Corriere della Sera

Dorfles: la mia vita dagli Asburgo agli smartphone

L’artista e critico, 108 anni ad aprile «Le partite a bocce con Svevo e quella rottura con Montale»

- di Aldo Cazzullo

È nato suddito di Francesco Giuseppe; ora a 108 anni usa il cellulare. Gillo Dorfles racconta al Corriere le partite a bocce con Svevo e la lite con Montale.

È nato austrounga­rico, suddito dell’imperatore Francesco Giuseppe. Ha giocato a bocce con Italo Svevo, comprato libri da Umberto Saba, litigato con Eugenio Montale. Suo suocero era molto amico di Giuseppe Verdi. Ha ascoltato la bisnonna raccontarg­li le Cinque Giornate di Milano; è andato in barca sui Navigli. Sua moglie arrivò all’altare al braccio di Arturo Toscanini.

Gillo Dorfles tra due mesi compirà 108 anni. Ma non è soltanto un uomo molto vecchio. È uno dei più importanti intellettu­ali italiani del Novecento, testimone delle avventure artistiche, scientific­he, letterarie del nostro Paese. Questo fa di lui un prodigio e un enigma. Prodigiosa è la sua memoria, più per le cose lontane che per quelle vicine, come i dannati di Dante. Quando gli mancano un nome o un dettaglio, si fa aiutare dal nipote Piero, o controlla sul suo ultimo libro, Paesaggi e personaggi (Bompiani).

La Trieste degli Asburgo

«Il mio vero nome è Angelo, ma nessuno mi ha mai chiamato così. I Dorfles sono una famiglia di origine austriaca, trasferita a Gorizia: mio nonno era presidente del teatro Verdi, molto fiero di avervi portato Eleonora Duse. Sono nato a Trieste il 12 aprile 1910. Ricordo la città pavesata di bandiere gialle e nere con le aquile, i colori dell’impero. Quasi ogni giorno uscivo in passeggiat­a con mia madre. Incontrava­mo un pope barbuto, un prete greco, che mi vezzeggiav­a: questo mi faceva sentire importante. E passavamo dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: “Cos’ti vol picio? No xe roba per ti!”. Era Umberto Saba. Non vidi l’arrivo dei marinai italiani, nel novembre di cent’anni fa; durante la Grande Guerra la mamma mi aveva portato a Genova, dov’era nata. Mio padre, irredentis­ta, era al confino a Vienna. Ma il liceo lo feci a Trieste: il Dante Alighieri. Linuccia, la figlia di Saba, divenne una delle mie più care amiche. Andavo a casa sua almeno due pomeriggi a settimana; e se il padre mi sopportava a malapena, la madre, Lina, era molto gentile. Poi Linuccia si fidanzò con un ragazzo meraviglio­so, Bobi Bazlen: fu lui a farmi scoprire Proust, Kafka e soprattutt­o Joyce. Andavamo a lezione da un professore che l’aveva conosciuto e ci spiegava l’ulisse, allora ignoto in Italia».

Il salotto di Svevo

«Irredentis­ti e nazionalis­ti si trovavano a casa di Elsa Dobra, sorella di Elodie Stuparich, una delle muse di Scipio Slataper: il “barbaro sognante”, l’eroe del Carso. Io frequentav­o il salotto di Olga Veneziani, che aveva una fabbrica di vernici sottomarin­e: una signora dal carattere terribile, che mal tollerava le prove letterarie del genero, Ettore Schmitz, che nessuno conosceva ancora come Italo Svevo. Con lui facevamo gite sul Carso, giocavamo a bocce nelle locande. Il mio primo articolo sul Corriere della Sera, chiestomi da Dino Buzzati, raccontava proprio casa Veneziani. C’era una giovane pittrice, Leonor Fini, eccentrica e vistosa; un mio professore ci vide camminare a braccetto e telefonò a mia madre allarmatis­simo: “Suo figlio si accompagna a donne di malaffare!”. Ai bagni Savoia diventai amico di Leo Castelli, che avrei ritrovato a New York, divenuto il più grande mercante d’arte del secolo. Un nipote di Svevo sposò una pittrice, Anna, che sarà la mamma di Susanna Tamaro; che quindi è pronipote dello scrittore».

La Milano dei Navigli

«Da bambino andavo a trovare mia bisnonna, che abitava in corso Venezia, nel palazzo con le quattro colonne al numero 34, costruito da mio prozio. La bisnonna era stata amica di Carducci e mi parlava del Risorgimen­to: lei c’era. Cent’anni fa Milano era ancora un borgo tranquillo, circondato da orti e cascine. I Navigli erano bellissimi, interrarli è stato un errore. Abituato a città nautiche come Trieste e Genova, Milano mi parve una città d’acqua. Fu un incontro fatale. Passeggiav­o lungo il Navi-

Gli incontri

A Trieste passavamo dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: era Saba Mia moglie fu portata all’altare da Toscanini. «Artù», come amava firmarsi. Era molto alla mano

glio che ora è via Senato, andavo in barca nel laghetto di San Marco. Più tardi cominciai a frequentar­e gli artisti, in particolar­e Lucio Fontana. Lo vedevo spesso, studiava a Brera con Adolfo Wildt; non tagliava ancora le tele, faceva statue di ceramica, ma era già un grande. Andavo ai concerti con Fausto Melotti e suo cognato Gino Pollini, l’architetto».

L’elettrosho­ck

«Nonostante la passione per l’arte, mi sentivo obbligato a prendere una laurea seria, e mi iscrissi a Medicina. Volevo diventare psichiatra come Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettrosho­ck. Fu lui a insegnarmi come si fa: si mettono due elettrodi alle tempie del paziente, la scossa elettrica gli fa perdere coscienza. Era molto impression­ante. Dava qualche risultato, ma si usava anche quando non ce n’era bisogno. Dopo tre anni a Milano mi trasferii a Roma, dove fui allievo e assistente di Cesare Frugoni. Ricordo i primi pazienti che interrogai. Un paranoico si credeva Gesù. Un uomo raccontava di aver partorito quattro gemelli di dieci chili l’uno. Un altro viveva in uno stato di priapismo continuo, e disegnava ovunque maialini. Capii che il mio mestiere non era la medicina, ma l’estetica».

Artù Toscanini

«Alla Scala mi portò per la prima volta lo zio Ernesto: era sordo, ma se sedeva in prima fila con la trombetta d’argento riusciva a sentire qualcosa. C’era Toscanini, dirigeva il Falstaff. Io ero fidanzato con Lalla Gallignani, la figlia di Giuseppe, un faentino legato a Verdi che l’aveva portato a Milano per dirigere il conservato­rio. Alla sua morte, Toscanini divenne il tutore di Lalla. Fu lui a portarla all’altare quando ci sposammo. “Artù”, come amava firmarsi, era pieno di umanità, molto alla mano; innamorato delle donne, anche troppo. Suo figlio Walter fu testimone di nozze, il riceviment­o lo facemmo a casa Toscanini, in via Durini, e andammo in viaggio di nozze all’isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà. Le figlie, Wally e Wanda, avevano ereditato l’esuberanza del padre. Dopo la guerra rividi “Artù” a New York. Era molto stanco, ma alle prove gli errori dell’orchestra lo rinvigoriv­ano: “Corpo di una madonnacci­a!” urlava gettando la bacchetta».

Il superstite dei lager

«Avevo fatto il militare nel Nizza Cavalleria. Avrei preferito il Savoia, per via delle divise, ma l’impiegato a cui mi ero fatto raccomanda­re fece confusione. In cavalleria non era obbligator­io il saluto fascista, con mio grande sollievo, perché detestavo il Duce. Allo scoppio della guerra non fui richiamato alle armi, avevo già compiuto trent’anni. Sfollammo in un casolare in Toscana, ma andavo spesso a Firenze, alle Giubbe Rosse. Un testimone mi parlò di piazzale Loreto: non riuscivano a fucilare Starace, catturato in pantofole, perché c’era troppa gente, per sparargli dovettero distenderl­o sopra il corpo di Mussolini. L’anatomopat­ologo Cattabeni, amico e collega, mi disse che dall’autopsia emerse che il Duce stava benissimo, a parte le cicatrici di un’ulcera; le malattie che gli attribuiva­no erano leggende. Incontrai un ebreo livornese quindicenn­e, sopravviss­uto a Dachau e a Buchenwald: mi raccontò che erano costretti a cibarsi dei compagni morti. E vidi passare la brigata ebraica, con la stella di David — gialla su fondo biancoazzu­rro — ostentata con baldanza».

Montale e la Mosca

«Montale me lo presentò Bazlen a Trieste: fu Eugenio, che chiamavamo Eusebio, a far conoscere Svevo ai lettori italiani. Lo rividi poi a Genova, a Firenze, a Milano, nella sua casa di via Bigli. Stava con la Mosca, che in realtà si chiamava Drusilla Tanzi, ed era terribilme­nte gelosa di lui. Teneva mia moglie per ore al telefono per lamentarsi delle rivali, fino a quando Lalla osò dire: “Ma perché non lo lasci un po’ in pace?”. Da un giorno all’altro la mia amicizia con Montale finì. Recuperamm­o in parte solo dopo la morte della Mosca, nel ‘63».

La Milano di oggi

«Tutto questo slancio, chiedo scusa, non lo vedo. Dopo la Seconda guerra mondiale Milano era diventata la capitale culturale d’italia, soppiantan­do Torino, Firenze, Roma. Con Munari e Soldati fondammo l’arte concreta. C’erano il design e la grande editoria: Sereni, Vittorini, che oltretutto era un uomo affabile, a differenza di Moravia, un po’ presuntuos­o. Ora la società letteraria non esiste più, e non vedo nuovi protagonis­ti. L’ultimo è stato Umberto Eco».

La longevità

«Com’è la vita oltre i cent’anni? Non amo l’argomento. Ci si annoia, perché si fatica a leggere. Le novità mi piacciono, ho anche preso il cellulare. Non sono morigerato, ho sempre mangiato le cose che mi piacevano: gli gnocchi alla romana, i carciofi, i tartufi; e i fritti. Sono un discreto cuoco, specialità fiori di zucca. Ho sempre bevuto vino rosso, ho una passione per il cannonau. Una volta lo dissi in tv e vari produttori sardi mi mandarono a casa una cinquantin­a di bottiglie. Poi purtroppo hanno smesso».

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In barca

Da bimbo andavo a Milano a trovare mia bisnonna: cent’anni fa era un borgo tranquillo. I Navigli erano bellissimi, io andavo in barca nel laghetto di San Marco. Più tardi cominciai a frequentar­e gli artisti, come Wildt e Fontana

La vita quotidiana

Alla mia età ci si annoia, perché si fatica a leggere. Non sono morigerato, ho sempre mangiato le cose che mi piacevano: gli gnocchi alla romana, i tartufi e i fritti. Sono un discreto cuoco, specialità fiori di zucca. E ho una passione per il cannonau

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Casual Gillo Dorfles, 108 anni il prossimo 12 aprile, sfoglia un catalogo con gli occhiali da sole e le sarpe da ginnastica
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