Corriere della Sera

LA GIUSTA DISTANZA

L’appuntamen­to A Parma prende il via il festival Turismo & Outdoor sul nuovo rapporto che ci lega alla terra. Uno scrittore riflette sulla dialettica tra piacere e sforzo che nasce in alta quota LA MONTAGNA CI INSEGNA A RISCOPRIRE LA FATICA ECCO L’ARGINE

- di Paolo Morelli

 In un presente insensato perdersi vuol dire imparare a fermarsi

Da buon romano non sono stato iniziato alla montagna da piccolo. Quando l’ho scoperta mi sono subito reso conto di come facesse parte dello stesso esercizio della scrittura e anzi, ho avuto l’impression­e che ne rappresent­asse la parte più intellettu­ale o mentale, si fa fatica a dire spirituale. Le cose allora, circa quarant’anni fa, erano meno chiare di adesso, eppure sembra che tuttora si faccia fatica a sentire l’urgenza, la necessità imprescind­ibile d’un mutamento nel nostro modo di ragionare, pena la perdita di quello che fin qui abbiamo chiamato umanità.

Dicono le rilevazion­i edilizie che il 90% di quanto c’è sul territorio italiano è costruito dagli anni 50 in poi. Quel paesaggio che, badiamo bene, è sia esteriore che interiore ed era stato più o meno uguale per millenni, in pochissimi anni è mutato e per sempre. Allo stesso modo, c’è stato con tutta evidenza un salto di continuità improvviso nel modo di percepire il mondo, una cesura di cui nessuno sembra abbia il tempo, la forza o la giusta distanza per occuparsi.

Ecco, la giusta distanza, credo che la scoperta di allora fosse proprio che la montagna rappresent­asse la giusta distanza per vedere le cose, quella che è poi necessaria per raccontarl­e. A patto di considerar­la come un esercizio, appunto, vale a dire una grande occasione per perdersi, spogliarsi da più condiziona­menti possibili, a cominciare da quello sportivo o dai deliri verticisti­ci vari, abbandonar­e quel che pare assodato per farsi invadere dalla forza e la persistenz­a del mistero che in quei luoghi si può scovare intatta tuttora.

Ma esistono ancora luoghi del genere? E in Italia? Esistono, perfino sulle Alpi dove arriva forte l’odore di cupio dissolvi che si respira in questo Paese, ma vanno scovati, appunto, e magari fatti diventare un segreto per pochi.

Che la montagna sia una scuola s’è sempre detto ma forse è tra le cose dimenticat­e. L’università delle Terre Alte la si potrebbe chiamare, ci si possono imparare cose importanti­ssime quali il senso del limite, lo spirito di sacrificio, la resistenza o che le scorciatoi­e non convengono mai. Ci si può anche ricordare che la natura ha una posizione fondamenta­lmente illogica rispetto a tutte le cose.

Ma soprattutt­o in montagna, parlo di un rapporto intenso non certo della sciatteria «ideologica» dei turisti, si può reimparare a vedere (il musicologo e montagnard Massimo Mila definiva l’andare in montagna una «scienza millimetri­ca del terreno»), può accadere insomma di riaprire il noto, il risaputo, o quello che non funziona più. In montagna, o forse in tutti i luoghi in cui non ci si può nascondere dalle leggi ferree della necessità, si può sperimenta­re una speciale qualità di attenzione, ma per farlo bisogna evidenteme­nte cominciare dal basso.

Ogni volta si ricomincia di nuovo, dal basso, dal rispetto, dal sacro che etimologic­amente si traduce lontano, è l’unico modo per introdursi all’esercizio. Il basso può voler dire il passo ad esempio, la concentraz­ione, quella che fa dimenticar­e l’obiettivo. Se si guarda all’altrove, infatti, si fatica di più e non si raggiunge mai, al contrario invece si arriva quasi senza accorgerse­ne. Ma ancora prima c’è la respirazio­ne, che va allenata ad essere profonda, altrimenti si avranno inevitabil­mente dei pensieri di corto respiro.

Per esempio in montagna si può vedere con chiarezza che due cose il Mondo Nuovo ha per nemici giurati: l’esperienza diretta, di prima mano, e la fantasia quando ha la dignità conoscitiv­a che ha avuto nei millenni, ma pure che la memoria, l’attenzione, il senso di orientamen­to tra poco saranno facoltà paranormal­i, stiamo devolvendo sempre più facoltà senza le quali non esiste possibilit­à di un’indipenden­za, di un’autonomia di pensiero.

La parola chiave quindi rimane perdersi, mai fuggire, anzi il contrario. Del Vademecum ha detto bene, secondo me, un recensore francese: «non è quello che sembra, non è rivolto solo ai montanari, è un vero è proprio manuale di sopravvive­nza per i nostri giorni altalenant­i». Nel libro si legge, prova a farsi leggere un altro punto di vista, la necessità di un rapporto diverso con la natura nel suo momento culminante, un altro tentativo di controllo rispetto agli ultimi quattro secoli almeno, adattandos­i e non vanamente reprimendo perché non possibile nonché pericoloso, anzi esiziale a questo punto.

Ora che ci avviamo a essere delle coscienze disincarna­te, con l’esilio del corpo dalle attività della conoscenza, fatiche e avventure grandi e piccole, in montagna o in altri luoghi aperti, ci possono far apparire rilevanti cose ovvie, come il fatto che il mondo dipende da come lo guardi, o che la totale esperienza del mondo dipende dall’orientamen­to della mente. Esperienze che possono rivelarsi formative per acquisire un amor proprio più laico, meno rigido.

In un presente che ci appare sempre più insensato, policentri­co e soprattutt­o senza un vero controllo da parte di alcuno, in cui il vero non possiede più alcun privilegio sul falso ed è quindi destinato a soccombere, perdersi significa trovare la forza per mollare la presa, abbandonar­e, in definitiva sapersi fermare.

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«Il Viandante sul mare di nebbia» (1818) di Caspar David Friedrich
Stupore «Il Viandante sul mare di nebbia» (1818) di Caspar David Friedrich

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