LA GIUSTA DISTANZA
L’appuntamento A Parma prende il via il festival Turismo & Outdoor sul nuovo rapporto che ci lega alla terra. Uno scrittore riflette sulla dialettica tra piacere e sforzo che nasce in alta quota LA MONTAGNA CI INSEGNA A RISCOPRIRE LA FATICA ECCO L’ARGINE
In un presente insensato perdersi vuol dire imparare a fermarsi
Da buon romano non sono stato iniziato alla montagna da piccolo. Quando l’ho scoperta mi sono subito reso conto di come facesse parte dello stesso esercizio della scrittura e anzi, ho avuto l’impressione che ne rappresentasse la parte più intellettuale o mentale, si fa fatica a dire spirituale. Le cose allora, circa quarant’anni fa, erano meno chiare di adesso, eppure sembra che tuttora si faccia fatica a sentire l’urgenza, la necessità imprescindibile d’un mutamento nel nostro modo di ragionare, pena la perdita di quello che fin qui abbiamo chiamato umanità.
Dicono le rilevazioni edilizie che il 90% di quanto c’è sul territorio italiano è costruito dagli anni 50 in poi. Quel paesaggio che, badiamo bene, è sia esteriore che interiore ed era stato più o meno uguale per millenni, in pochissimi anni è mutato e per sempre. Allo stesso modo, c’è stato con tutta evidenza un salto di continuità improvviso nel modo di percepire il mondo, una cesura di cui nessuno sembra abbia il tempo, la forza o la giusta distanza per occuparsi.
Ecco, la giusta distanza, credo che la scoperta di allora fosse proprio che la montagna rappresentasse la giusta distanza per vedere le cose, quella che è poi necessaria per raccontarle. A patto di considerarla come un esercizio, appunto, vale a dire una grande occasione per perdersi, spogliarsi da più condizionamenti possibili, a cominciare da quello sportivo o dai deliri verticistici vari, abbandonare quel che pare assodato per farsi invadere dalla forza e la persistenza del mistero che in quei luoghi si può scovare intatta tuttora.
Ma esistono ancora luoghi del genere? E in Italia? Esistono, perfino sulle Alpi dove arriva forte l’odore di cupio dissolvi che si respira in questo Paese, ma vanno scovati, appunto, e magari fatti diventare un segreto per pochi.
Che la montagna sia una scuola s’è sempre detto ma forse è tra le cose dimenticate. L’università delle Terre Alte la si potrebbe chiamare, ci si possono imparare cose importantissime quali il senso del limite, lo spirito di sacrificio, la resistenza o che le scorciatoie non convengono mai. Ci si può anche ricordare che la natura ha una posizione fondamentalmente illogica rispetto a tutte le cose.
Ma soprattutto in montagna, parlo di un rapporto intenso non certo della sciatteria «ideologica» dei turisti, si può reimparare a vedere (il musicologo e montagnard Massimo Mila definiva l’andare in montagna una «scienza millimetrica del terreno»), può accadere insomma di riaprire il noto, il risaputo, o quello che non funziona più. In montagna, o forse in tutti i luoghi in cui non ci si può nascondere dalle leggi ferree della necessità, si può sperimentare una speciale qualità di attenzione, ma per farlo bisogna evidentemente cominciare dal basso.
Ogni volta si ricomincia di nuovo, dal basso, dal rispetto, dal sacro che etimologicamente si traduce lontano, è l’unico modo per introdursi all’esercizio. Il basso può voler dire il passo ad esempio, la concentrazione, quella che fa dimenticare l’obiettivo. Se si guarda all’altrove, infatti, si fatica di più e non si raggiunge mai, al contrario invece si arriva quasi senza accorgersene. Ma ancora prima c’è la respirazione, che va allenata ad essere profonda, altrimenti si avranno inevitabilmente dei pensieri di corto respiro.
Per esempio in montagna si può vedere con chiarezza che due cose il Mondo Nuovo ha per nemici giurati: l’esperienza diretta, di prima mano, e la fantasia quando ha la dignità conoscitiva che ha avuto nei millenni, ma pure che la memoria, l’attenzione, il senso di orientamento tra poco saranno facoltà paranormali, stiamo devolvendo sempre più facoltà senza le quali non esiste possibilità di un’indipendenza, di un’autonomia di pensiero.
La parola chiave quindi rimane perdersi, mai fuggire, anzi il contrario. Del Vademecum ha detto bene, secondo me, un recensore francese: «non è quello che sembra, non è rivolto solo ai montanari, è un vero è proprio manuale di sopravvivenza per i nostri giorni altalenanti». Nel libro si legge, prova a farsi leggere un altro punto di vista, la necessità di un rapporto diverso con la natura nel suo momento culminante, un altro tentativo di controllo rispetto agli ultimi quattro secoli almeno, adattandosi e non vanamente reprimendo perché non possibile nonché pericoloso, anzi esiziale a questo punto.
Ora che ci avviamo a essere delle coscienze disincarnate, con l’esilio del corpo dalle attività della conoscenza, fatiche e avventure grandi e piccole, in montagna o in altri luoghi aperti, ci possono far apparire rilevanti cose ovvie, come il fatto che il mondo dipende da come lo guardi, o che la totale esperienza del mondo dipende dall’orientamento della mente. Esperienze che possono rivelarsi formative per acquisire un amor proprio più laico, meno rigido.
In un presente che ci appare sempre più insensato, policentrico e soprattutto senza un vero controllo da parte di alcuno, in cui il vero non possiede più alcun privilegio sul falso ed è quindi destinato a soccombere, perdersi significa trovare la forza per mollare la presa, abbandonare, in definitiva sapersi fermare.