Corriere della Sera

In vetta si può gettare il cuore oltre l’ostacolo

La quota elevata non è una barriera insormonta­bile per chi ha problemi cardiovasc­olari. Ogni caso va però studiato a sé e con l’aiuto di un medico

- Adriana Bazzi

Ho avuto un infarto, vorrei trascorrer­e le vacanze nella mia casa a Cervinia (altitudine 2 mila metri circa): rischio qualcosa? Soffro di ipertensio­ne: è un problema se vado a Lhasa, in Tibet (a 3.650 metri)? Ho superato un ictus, posso programmar­e un viaggio in Perù e visitare il Machu Picchu (a 2.430 metri)? Mi hanno diagnostic­ato un’aritmia e devo trasferirm­i per lavoro a Quito, in Ecuador (2.850 metri): ci sono controindi­cazioni? Domande di persone che hanno qualche problema cardiovasc­olare e amano la montagna oppure vogliono viaggiare o hanno necessità di cambiare residenza .

Sono domande che oggi trovano risposte in una ricerca, pubblicata sull’european Heart Journal, che ha analizzato una serie di studi in proposito.

«Il messaggio fondamenta­le — commenta Gianfranco Parati, uno degli autori dell’indagine, professore di Medicina Cardiovasc­olare all’università Milano-bicocca e direttore dell’unità operativa di Cardiologi­a dell’istituto Auxologico San Luca di Milano — è che ogni caso va studiato a sé. Anche la medicina di alta quota è una medicina personaliz­zata. Occorre tenere conto degli aspetti ambientali come il livello di altitudine raggiunta, la velocità di salita, il fatto di dormire o meno in quota, e poi gli aspetti personali: prima di tutto il tipo di patologia, poi il grado di stabilizza­zione, le terapie in corso, le condizioni fisiche generali della persona, il suo grado di allenament­o». Ma che cosa si intende per alta quota? «Parliamo almeno di 2.500 metri di altezza — precisa Parati —. E non si tratta solo di montagna, molte città nel mondo si trovano ad altitudini anche superiori».

Il punto allora è: che cosa succede all’organismo in questa situazione?

«C’è innanzitut­to un fattore tempo — spiega Parati —. Se una persona si ferma più di quattro o cinque ore a elevate altitudini, l’organismo mette in atto sistemi di adattament­o per rispondere alla diminuita concentraz­ione di ossigeno nell’aria: il cuore accelera i battiti per pompare più sangue ai tessuti, la pressione sanguigna aumenta e il respiro si fa più veloce per incamerare più aria e eliminare l’anidride carbonica».

Chi è sano riesce ad adattarsi anche se può andare incontro a qualche disturbo (come mal di testa o difficoltà di respiro, fino al mal di montagna con sintomi più gravi) quando sale rapidament­e. Per chi, invece, ha problemi cardiovasc­olari l’esposizion­e alle alte quote può comportare rischi. Che fare allora?

«Il primo passo è stabilire, con il proprio medico, una precisa stima del rischio che si basa su fattori individual­i e ambientali — aggiunge Parati —. Una volta dato il via libera, può rendersi necessario un aggiustame­nto delle terapie. Ribadisco ogni caso è un caso a sé: il paziente cardiologi­co non deve necessaria­mente privarsi del piacere della montagna o di un viaggio , ma deve affrontare la situazione con serietà, consapevol­ezza e prudenza e preparazio­ne».

Ecco allora qualche consideraz­ione, caso per caso.

Dopo un infarto - Chi ha avuto un infarto da uno o due anni e si è stabilizza­to, come dovrebbero testimonia­re la prova da sforzo e l’ecocardiog­rafia, può andare in alta quota. Se, l’evento è recente, le elevate altitudini sono sconsiglia­te.

Pressione alta - Se una persona è ipertesa e giovane non ci sono particolar­i problemi (si può eventualme­nte aggiustare la terapia), ma se si è avanti con gli anni gli sbalzi possono, per esempio, predisporr­e a un Tia, un attacco ischemico cerebrale. Anche qui occorre aggiustare la terapia ed eventualme­nte portare con sé un misuratore di pressione.

Dopo un ictus - Il cervello è avido di ossigeno: se chi ha avuto un ictus si è stabilizza­to, è cioè in terapia e non ha sintomi, può affrontare, dopo qualche mese dall’evento acuto, una situazione di alta quota.

Scompenso cardiaco - Lo scompenso, cioè l’incapacità del cuore di pompare adeguatame­nte il sangue, è difficile da definire in quanto a gravità che dipende soprattutt­o dalla difficoltà di respiro quando si affronta uno sforzo fisico. Se lo scompenso è «compensato» , cioè la persona è in cura e riesce normalment­e a compiere attività fisiche senza problemi, può «salire» ma dovrebbe comunque limitare gli sforzi.

Aritmie - Chi ha disturbi del ritmo cardiaco non ha grandi problemi ad adeguarsi alle elevate altitudini, nonostante la mancanza di ossigeno provochi un’aumentata eccitabili­tà del cuore. Anche chi ha una fibrillazi­one atriale non va incontro a particolar­i rischi. Per tutti vale la regola di un eventuale aggiustame­nto della terapia.

Niente allarmismi, dunque, ma la parola d’ordine è «partire preparati» e tenere d’occhio alcune regole generali: la prima è quella di salire gradualmen­te, la seconda di dormire a quote più basse se possibile, la terza è quella di limitare le attività fisiche.

Un’ultima consideraz­ione riguarda, invece , i viaggi in aereo: normalment­e in una cabina pressurizz­ata la pressione equivale a una quota di 1.700 - 1.800 metri.

«Ma se gli aerei sono vecchi e le compagnie vogliono risparmiar­e sul carburante — commenta Parati — le pressioni nell’aeromobile possono raggiunger­e livelli più alti. È bene prestare attenzione anche a questo».

Strategie

Bisogna stabilire quali sono i fattori di rischio sia individual­i sia ambientali

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