In vetta si può gettare il cuore oltre l’ostacolo
La quota elevata non è una barriera insormontabile per chi ha problemi cardiovascolari. Ogni caso va però studiato a sé e con l’aiuto di un medico
Ho avuto un infarto, vorrei trascorrere le vacanze nella mia casa a Cervinia (altitudine 2 mila metri circa): rischio qualcosa? Soffro di ipertensione: è un problema se vado a Lhasa, in Tibet (a 3.650 metri)? Ho superato un ictus, posso programmare un viaggio in Perù e visitare il Machu Picchu (a 2.430 metri)? Mi hanno diagnosticato un’aritmia e devo trasferirmi per lavoro a Quito, in Ecuador (2.850 metri): ci sono controindicazioni? Domande di persone che hanno qualche problema cardiovascolare e amano la montagna oppure vogliono viaggiare o hanno necessità di cambiare residenza .
Sono domande che oggi trovano risposte in una ricerca, pubblicata sull’european Heart Journal, che ha analizzato una serie di studi in proposito.
«Il messaggio fondamentale — commenta Gianfranco Parati, uno degli autori dell’indagine, professore di Medicina Cardiovascolare all’università Milano-bicocca e direttore dell’unità operativa di Cardiologia dell’istituto Auxologico San Luca di Milano — è che ogni caso va studiato a sé. Anche la medicina di alta quota è una medicina personalizzata. Occorre tenere conto degli aspetti ambientali come il livello di altitudine raggiunta, la velocità di salita, il fatto di dormire o meno in quota, e poi gli aspetti personali: prima di tutto il tipo di patologia, poi il grado di stabilizzazione, le terapie in corso, le condizioni fisiche generali della persona, il suo grado di allenamento». Ma che cosa si intende per alta quota? «Parliamo almeno di 2.500 metri di altezza — precisa Parati —. E non si tratta solo di montagna, molte città nel mondo si trovano ad altitudini anche superiori».
Il punto allora è: che cosa succede all’organismo in questa situazione?
«C’è innanzitutto un fattore tempo — spiega Parati —. Se una persona si ferma più di quattro o cinque ore a elevate altitudini, l’organismo mette in atto sistemi di adattamento per rispondere alla diminuita concentrazione di ossigeno nell’aria: il cuore accelera i battiti per pompare più sangue ai tessuti, la pressione sanguigna aumenta e il respiro si fa più veloce per incamerare più aria e eliminare l’anidride carbonica».
Chi è sano riesce ad adattarsi anche se può andare incontro a qualche disturbo (come mal di testa o difficoltà di respiro, fino al mal di montagna con sintomi più gravi) quando sale rapidamente. Per chi, invece, ha problemi cardiovascolari l’esposizione alle alte quote può comportare rischi. Che fare allora?
«Il primo passo è stabilire, con il proprio medico, una precisa stima del rischio che si basa su fattori individuali e ambientali — aggiunge Parati —. Una volta dato il via libera, può rendersi necessario un aggiustamento delle terapie. Ribadisco ogni caso è un caso a sé: il paziente cardiologico non deve necessariamente privarsi del piacere della montagna o di un viaggio , ma deve affrontare la situazione con serietà, consapevolezza e prudenza e preparazione».
Ecco allora qualche considerazione, caso per caso.
Dopo un infarto - Chi ha avuto un infarto da uno o due anni e si è stabilizzato, come dovrebbero testimoniare la prova da sforzo e l’ecocardiografia, può andare in alta quota. Se, l’evento è recente, le elevate altitudini sono sconsigliate.
Pressione alta - Se una persona è ipertesa e giovane non ci sono particolari problemi (si può eventualmente aggiustare la terapia), ma se si è avanti con gli anni gli sbalzi possono, per esempio, predisporre a un Tia, un attacco ischemico cerebrale. Anche qui occorre aggiustare la terapia ed eventualmente portare con sé un misuratore di pressione.
Dopo un ictus - Il cervello è avido di ossigeno: se chi ha avuto un ictus si è stabilizzato, è cioè in terapia e non ha sintomi, può affrontare, dopo qualche mese dall’evento acuto, una situazione di alta quota.
Scompenso cardiaco - Lo scompenso, cioè l’incapacità del cuore di pompare adeguatamente il sangue, è difficile da definire in quanto a gravità che dipende soprattutto dalla difficoltà di respiro quando si affronta uno sforzo fisico. Se lo scompenso è «compensato» , cioè la persona è in cura e riesce normalmente a compiere attività fisiche senza problemi, può «salire» ma dovrebbe comunque limitare gli sforzi.
Aritmie - Chi ha disturbi del ritmo cardiaco non ha grandi problemi ad adeguarsi alle elevate altitudini, nonostante la mancanza di ossigeno provochi un’aumentata eccitabilità del cuore. Anche chi ha una fibrillazione atriale non va incontro a particolari rischi. Per tutti vale la regola di un eventuale aggiustamento della terapia.
Niente allarmismi, dunque, ma la parola d’ordine è «partire preparati» e tenere d’occhio alcune regole generali: la prima è quella di salire gradualmente, la seconda di dormire a quote più basse se possibile, la terza è quella di limitare le attività fisiche.
Un’ultima considerazione riguarda, invece , i viaggi in aereo: normalmente in una cabina pressurizzata la pressione equivale a una quota di 1.700 - 1.800 metri.
«Ma se gli aerei sono vecchi e le compagnie vogliono risparmiare sul carburante — commenta Parati — le pressioni nell’aeromobile possono raggiungere livelli più alti. È bene prestare attenzione anche a questo».
Strategie
Bisogna stabilire quali sono i fattori di rischio sia individuali sia ambientali