PICCOLE E MEDIE IMPRESE, UN ESEMPIO PER L’ITALIA
Che Paese vogliamo essere? È questa la domanda di cui si sente la mancanza in questa campagna elettorale. Eppure, mai come in questo momento occorrerebbe domandarselo. Abbiamo superato gli anni della crisi e l’economia mondiale è oggi più tonica. Ma non mancano i fattori di instabilità: l’equilibrio tra aumento dei tassi e stabilità finanziaria rimane un obiettivo difficile da raggiungere; i focolai di crisi politica e ambientale sono sempre più numerosi e intricati; i rapidi e profondi cambiamenti tecnologici sono destinati a cambiare il volto delle nostre società. Comunque vadano le cose, negli anni che ci aspettano, la navigazione non sarà facile per nessuno. Che ci prepariamo o meno, il futuro ci piomberà addosso e ci chiederà il conto.
Dunque, che Paese vogliamo essere? Un modo per rispondere a questo interrogativo è guardare alla parte del Paese che sta dimostrando che ce la si può fare. Mi riferisco alla rete diffusa della piccole e medie imprese industriali che in questi anni si sono riorganizzate, permettendo al nostro Paese di ottenere risultati importanti: nell’anno 2016-17, l’italia ha segnato +3% nella produzione industriale, +8% nell’export, +11% negli investimenti in beni 4.0. Superando Francia e Germania.
La cosa interessante è che, guardando da vicino questo gruppo di imprese, in filigrana si scopre che il futuro dell’italia (come per qualsiasi altro Paese) è scritto nel suo passato.
Sono tre le caratteristiche su cui riflettere.
Prima di tutto, il successo delle nostre imprese è dovuto alla decisione di giocare la partita della qualità integrale, di prodotto e di processo. Da sempre elemento distintivo della tradizione italiana. Ciò significa misurarsi a viso aperto con il cambiamento tecnologico, senza subirlo ma riportandolo alle proprie caratteristiche. E scoprendo, così, che il digitale e l’impresa 4.0 possono sì favorire la monopolizzazione e la spersonalizzazione
più radicali, ma possono anche, al contrario, rilevarsi preziose alleate di quel modello economico diffuso e reticolare che il mondo ci invidia. Le forme di produzione «sartoriale» oggi possibili permettono infatti di ottenere un nuovo promettente mix tra industriale e artigianale. Dove la qualità si ottiene ibridando la dimensione puramente tecnologica con la bellezza e la ricerca del significato, visti come elementi non estrinseci del modo di essere e di fare «italiano». La «creatività» (su cui si basa il nostro vantaggio competitivo) è in larga misura figlia di questo sguardo trasversale.
In secondo luogo, le pmi del riscatto italiano sanno che, oggi come ieri, non è possibile raggiungere risultati importanti senza investire —
Appartenenza
Con il proprio territorio si sforzano di stabilire uno scambio positivo
ma direi prima di tutto senza credere — nelle persone che ci lavorano. Anche la macchina più sofisticata alla fine dipende dalla relazione con una «maestranza» qualificata, esperta e intelligente. Come sempre nella loro storia, le nostre piccole e medie imprese tendono così a sviluppare un profilo integrativo: il semplice «sfruttamento» delle risorse può portare benefici di breve termine, ma alla lunga non regge la concorrenza. L’alleanza con chi lavora — che implica il passaggio da una logica rivendicativa a una contributiva — è qui strategica. Al punto di aver spinto le pmi più avanzate a farsi promotrici — in un Paese bloccato da vecchie contrapposizioni ideologiche — di alcune vere e proprie innovazioni sociali (come il secondo welfare).
Infine, ci troviamo davanti a organizzazioni interessate a stabilire uno scambio positivo con il territorio circostante, al quale sentono di appartenere. Consapevoli che, alla lunga, la singolarità di cui pure sono orgogliose non regge indi- pendentemente dalla piattaforma sulla quale sono costruite. Così, anche quando il rapporto con le istituzioni non è facile, la gran parte delle nostre imprese migliori lavora per creare un ecosistema sociale e ambientale sostenibile. In prima linea sui temi della scuola e della formazione professionale, della valorizzazione del patrimonio culturale e professionale, dell’ambiente, si tratta di organizzazioni capaci di guardare al di là del profitto: c’è una reputazione da difendere, una responsabilità da giocare, una creatività da rinnovare.
Qualità, integrazione, territorio: sono i tre cardini che leggono il futuro alla luce della «meglio» tradizione italiana. È vero, buona parte del Paese è molto lontana da questa visione. Ma forse lo smarrimento in cui il Paese sembra sprofondare altro non è che il sintomo dell’ormai cronica mancanza di una narrazione comune. Ma non è forse proprio questo uno dei compiti originari e qualificanti della politica?
© RIPRODUZIONE RISERVATA