«Saint Laurent è come la Tour Eiffel»
Anthony Vaccarello, 35 anni, da due alla guida della maison francese. «Troppa moda, abiti, sfilate. Ma non tutti fanno la qualità»
Fatti e parole. Più 23 per cento la crescita 2017 e critiche sempre positive, da quando c’è. Anthony Vaccarello, 35 anni, nato in Belgio da genitori siciliani, da due anni stilista di Yves Saint Laurent. Senza un prima (con la sua linea e con Versus) o un dopo ma sempre lui: riservato e serio e dolce. Da un piccolo (e impervio) studio nel Marais agli atelier (marmorei) di rue de l'université. «A marzo saranno due anni ed è tutto passato velocemente. Ho fatto molte cose, almeno ho questa impressione. Credo di essere rimasto lo stesso, però, molto riservato. Non mi piace la troppa esposizione. È vero la maison è grande ma la struttura creativa resta molto piccola, e mi sento a mio agio».
La difficoltà più grande quando è arrivato?
«Quella di non pensare mai all’heritage della maison. Perché in Francia Saint Laurent è come la tour Eiffel. È patrimonio nazionale. La gente si aspetta tanto e io ho sentito che non potevo andare avanti come quando disegnavo la mia collezione. Sapevo solo che dovevo fare Saint Laurent, però senza sforzi intellettuali o stilistici. Seguendo l’istinto».
La cosa più facile?
«Rien». Ride. «Sicuramente il rapporto con l’ad Francesca Bellettini. E poi con la gente».
In poco è riuscito a cancellare il ricordo di chi è stato prima di lei, se n’è reso conto?
«Lo so ma non lo voglio sentire! Non ho mai pensato di cancellare quello che è stato dopo Saint Laurent cioè Elbaz e Tom Ford e Pilati e Slimane. Prendo giusto quello che mi interessa perché, sono convinto, tutto resta. Sapevo che la critica era stata orribile spesso con i miei predecessori, e quando sono arrivato qui mi sono detto che dovevo prepararmi anche alle cose negative. Come? Non leggo nulla».
Cosa ammira di Saint Laurent?
«L’approccio sovversivo che aveva nella moda. Gioioso e classico, da una parte ma con un coté molto perverso. La gente, spesso, si ferma a
Il mio lavoro Non avrò mai una stagione di fiori e l’altra di frutti. Per me è sempre la stessa donna. Al termine dello show tiro fuori 2/3 look e ricomincio da lì
un aspetto, quello della Belle di Jour e di Catherine Deneuve e di quell’abito bianco. Ma quell’ambiguità di fondo, quel doppio senso sono altrettanto affascinanti. Da una parte lo chic dall’altra l’aspetto pungente, forte. Yves non era Chanel o Dior, che sono sempre stati più conservatori. Saint Laurent era qualcuno che teneva ad altri valori, che faceva tour affascinanti anche in mondi paralleli come l’arte, per esempio. Ho parlato tanto con Bergé, per me era inimmaginabile non farlo. Mi ha dato molti consigli, uno su tutti “fai ciò che vuoi ma non copiare mai”. Una regola che è mia da sempre».
Yves è stato un uomo grande e fragile.
«Non credo di avere un aspetto così fragile».
Le sue donne sono «dark-positive»?
«Mai tristi, sicuramente. Preferisco, se devo, la nostalgia».
Le nuove generazioni?
«Non le conosco. Ma detesto le donne troppo competitive o troppo aggressive. Sono per le donne che non devono dimostrare di essere quello che sono ma sono. E che si piacciono, senza preoccuparsi se vanno bene agli altri. Ragazze come Charlotte (Gainsbourg ndr) che è molto bella, o Lou (Doillon), o Anja (Rubik). Da loro imparo sempre molto. Anche in fatto di desideri banalmente su quello che indossano. Quindi quando creo non penso a una, ma tante donne, intelligenti. Hanno dai 25 anni in su. E le più giovani possono anche rubare i vestiti alle
loro madre. In fin dei conti Saint Laurent era il couturier delle ragazze, quelle con la sahariana e le mani tasca. Sono cresciuto fra le donne, come mia madre e le mie sorelle, e non ho mai vissuto di miti femminili. Li avevo e li ho, qui, reali. Parlo con loro, della loro vita e dei figli e dei sentimenti. Non penso a loro come a dei fantasmi che non fanno nulla. Per me lavorano e amano e vivono. Con tutte le loro complessità. E quando passiamo agli abiti voglio solo sapere come ci si sentono dentro».
La prima volta della sua gonna corta, asimmetrica, che tutti copiano.
«Non ho mai detto voglio fare una gonna corta. O il sexy per forza. Per me la mini è un sentimento di libertà. Qualcosa che non ferma la camminata della donna. Significa il meno della decorazione possibile. Le gambe non sono la parte del corpo che devo forzatamente vestire, non ce n’è bisogno».
Un momento caotico, questo, nella moda.
«C’è semplicemente troppa moda. Troppi abiti, troppe sfilate. C’è Internet e tutti fanno, ma non tutti fanno la qualità».
Non le piace la democratizzazione?
«È un bene, perché più persone possono avvicinarsi a questo mondo. Ma bisogna spiegare bene la differenza di qualità, perché se no si crea caos.
Con una collezione di oggetti da Colette, a Parigi, anche lei ha permesso a tutti, acquistando anche solo un accendino, di far parte della tribù Saint Laurent.
«Come quando Saint Laurent uscì fuori con Rive Gauche, per parlare oltre l’haute couture. Sono cose che nascono dall’esigenza di comunicare qualcosa, di ricordare una storia meravigliosa, anche solo nel gesto di accendere una sigaretta. Ma siamo una maison di lusso e dobbiamo restare tale».
Il suo lavoro creativo?
«Non avrò mai una stagione di fiori e l’altra di frutti. Per me è sempre la stessa donna, lo stesso ricordo. Al termine dello show tiro fuori 2/3 look e ricomincio. Penso ai desideri e ai sogni di questa donna preparo un collage. E la storia continua, da quella precedente».