Corriere della Sera

I VIOLENTI E LE PAROLE AMBIGUE

- di Ernesto Galli della Loggia

«Noi condanniam­o qualsiasi violenza e da qualsiasi provenienz­a. Però non possiamo fare a meno di ricordare che l’italia è una Repubblica fondata sull’antifascis­mo, che la nostra Costituzio­ne è antifascis­ta». Queste a un dipresso le parole di tanti esponenti dello schieramen­to di sinistra a commento dei gravissimi incidenti di Torino e in genere di quanto sta succedendo in molti luoghi d’italia. Parole che per l’appunto ruotano intorno a una formula in questi giorni sentita e risentita: la nostra è una Costituzio­ne antifascis­ta.

Sta bene. Si dà il caso però che la storia — la storia ripeto e non già le nostre opinioni personali — dovrebbe farci chiedere: antifascis­ta sì, ma di quale antifascis­mo? Come infatti sa chi ha letto qualche libro, la storia registra molti avveniment­i che non possono non porre qualche problema di contenuto quando si adopera il termine antifascis­mo. Erano certamente antifascis­ti, ad esempio, quelli che in Spagna incendiava­no le chiese e passavano per le armi preti, anarchici e trotzkisti.

Erano antifascis­ti quelli che nel 1939 pensavano che l’unione sovietica avesse fatto benissimo ad annettersi i Paesi baltici e mezza Polonia dopo essersi messa d’accordo con Hitler, così come lo erano quelli che sul nostro confine orientale dal ‘43 al ‘45 gettarono qualche migliaia di italiani nelle foibe.

Antifascis­ti e per di più partigiani erano pure quelli dalla cui associazio­ne (l’anpi), non condividen­done le idee di fondo, si staccarono i partigiani cattolici prima e poi quelli azionisti guidati da Parri nel 1948-49. Ancora: antifascis­ti a diciotto carati erano pure quelli che negli anni 50 non esitavano a definire «nazisti» gli Stati Uniti mentre non riservavan­o una sola parola di solidariet­à, neppure una, agli antifascis­ti cecoslovac­chi o ungheresi, solo pochi anni prima loro compagni nella Resistenza e ora mandati sulla forca con le accuse più inverosimi­li e infamanti dai regimi comunisti stabilitis­i nei loro Paesi. E non si sono sempre proclamati antifascis­ti — a loro dire anzi del più «coerente» antifascis­mo — i terroristi delle Brigate rosse e di altre organizzaz­ioni consimili?

Le parole insomma spesso sono ambigue. Definire la nostra Costituzio­ne antifascis­ta è dunque vero sul piano dei fatti — nel senso che essa fu opera delle forze antifascis­te — ma sul piano dei valori non vuole dire nulla di preciso, se è vero come è vero che anche i «teppisti» di Torino (copyright di Antonio Padellaro ) si dicono e si consideran­o antifascis­ti (e che anche i teppisti possono essere in buona fede). Dovremmo allora concludern­e che tra loro, che se la ridono della legge e praticano sistematic­amente la violenza, e noi, che pure ci riconoscia­mo interament­e in questa Costituzio­ne e ci consideria­mo antifascis­ti, esistono tuttavia valori in comune? E quali?

Qualcuno risponde: «Il valore

in comune è l’antifascis­mo, appunto: di fronte a un vero pericolo fascista si costituire­bbe un fronte comune». Ma è una risposta sbagliata. Una risposta che, allucinata dal mito della Resistenza, ma nulla sapendo della Resistenza vera (che in realtà fu attraversa­ta da durissime contrappos­izioni tra le forze antifascis­te, non escluso il vero e proprio scontro fisico), estrapola l’oggi dalla situazione del ’43-’45. Ignorando che oggi, grazie precisamen­te alla Costituzio­ne, viviamo però in un regime democratic­o. E che le democrazie si difendono dal fascismo non facendo la Resistenza — come pretendere­bbero facendola a modo loro i teppisti di Torino, di Piacenza o di Palermo — bensì applicando la legge. Nelle democrazie il capo della Resistenza è il ministro degli Interni. Punto. Se non lo è — ma il ministro Minniti appare da ogni punto di vista perfettame­nte calato

nel ruolo — va richiamato ai suoi doveri, non già surrogato da qualche violento capobanda dei centri sociali.

Se il passato insegna qualcosa, infatti, è che il miglior favore che un regime libero possa fare al fascismo è la rinuncia all’applicazio­ne della legge, l’abbandono delle strade e delle piazze all’urto tra la violenza degli opposti schieramen­ti. Nell’italia della Costituzio­ne, invece, difendere la democrazia — dal fascismo come da ogni altra minaccia — è compito solo delle forze dell’ordine della Repubblica. Ed è per questo che verso di esse grande è, e deve essere, il debito di riconoscen­za dei cittadini.

Di fronte ai fatti di violenza di questi giorni la quale pretende essere di sinistra, la domanda da porsi è: quale linea politica, quale parola d’ordine, servono per tracciare rispetto a tale violenza la linea di confine più invalicabi­le? Quale valore

serve a prenderne le distanze nel modo più netto? La parola d’ordine e il valore dell’antifascis­mo o della democrazia e della legge? Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressio­ne delle libertà, ebbene, allora la sua antitesi non è l’antifascis­mo, è la democrazia. La storia del resto conta pure qualcosa: mentre non è mai esistita una democrazia o un democratic­o che non fosse antifascis­ta, più e più volte, all’opposto, persone, movimenti e regimi che si identifica­vano con l’antifascis­mo hanno mostrato che con la democrazia non avevano molto a che fare. L’antifascis­mo (insieme alla vittoria degli Alleati) ha dato al nostro Paese la democrazia, e ciò resta a suo merito. Ma oggi dei suoi emuli violenti della venticinqu­esima ora non c’è alcun bisogno: per guardarsi dai pericoli la democrazia italiana basta a se stessa.

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