Corriere della Sera

Americani, russi La guerra segreta sul fronte siriano

La testimonia­nza sulle bombe di Deir ez-zor

- di Lorenzo Cremonesi

In molti lo definiscon­o «lo scontro militare più grave tra Washington e Mosca dalla fine della Guerra fredda». Uno scontro che Polat Jan, comandante curdo, ricostruis­ce così al Corriere: dalle 22 del 7 febbraio all’alba del giorno dopo, jet e droni americani hanno bombardato i soldati di Assad e i loro alleati russi a Deir ez-zor, sede di una grande raffineria. I morti, tra i militari di Mosca — non è chiaro se mercenari o soldati regolari — sono tra 100 e 150: «l’armata-ombra» di Putin. Intanto, il Consiglio di sicurezza dell’onu ha votato all’unanimità una tregua di 30 giorni per salvare la popolazion­e di Ghouta, cittadina assediata vicino a Damasco.

L’ attacco americano è cominciato con precisione micidiale verso le dieci della sera del 7 febbraio ed è durato quasi ininterrot­tamente sino all’alba del giorno dopo. Una pioggia di missili e bombe lanciate da jet e droni che non ha lasciato scampo ai soldati di Bashar Assad assieme ai loro alleati russi e alle milizie sciite, tra cui diversi gruppi scelti dell’hezbollah libanese. Pare che qualcuno tra loro con le prime luci del nuovo giorno abbia provato a sventolare bandiera bianca dal terreno sconvolto dalle esplosioni, i mezzi in fiamme (tra cui una ventina di carri armati) e i resti dei cadaveri scomposti. Ma la zona che abbiamo visto anche noi da lontano è caratteriz­zata da grandi colline di terra sabbiosa, qualche fattoria isolata e campi coltivati delimitati da spazi alberati che declinano dolcemente sino alle rive dell’eufrate, qui già largo e maestoso. La visuale è difficile.

«Sapevamo che gli americani avrebbero attaccato. Erano settimane che parlavamo con i loro comandi. Il piano era stato architetta­to a dicembre, quando le truppe pro-damasco hanno attraversa­to l’eufrate sul ponte di Deir ez-zor da sud verso nord attestando­si nell’area del villaggio di Salahia, larga 15 chilometri e profonda 3. Una chiara violazione delle intese non scritte tra noi e loro: nessuno avrebbe dovuto oltrepassa­re il fiume per invadere il campo degli altri. Ma hanno approfitta­to del fatto che eravamo occupati a combattere con quel che resta dei militanti di Isis, che scappano verso la nostra sponda perché noi facciamo prigionier­i e i filo-bashar no. La cosa che ci ha colpito è stato scoprire l’alto numero di russi tra i cadaveri. Non li abbiamo ancora raccolti tutti. Valutiamo siano tra i 100 e 150 su circa 300 morti. Gli altri sono per lo più Hezbollah», ci racconta Polat Jan, che è un alto responsabi­le dello Ypg (le forze militari curde siriane) comandante per il settore di Deir ez-zor. Ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha ammesso che «diverse decine» di russi sono stati feriti in combattime­nto.

Così, in circa tre ore di intervista, questo ufficiale 37enne originario di Kobane fornisce dettagli inediti di quello che la stampa americana ha platealmen­te bollato come «lo scontro militare più grave tra Stati Uniti e Russia dalla fine della Guerra fredda» e probabilme­nte dai tempi del conflitto in Vietnam. Per raggiunger­lo abbiamo percorso circa 350 chilometri da Kobane, attraverso Raqqa (l’ex capitale di Isis) e sino a questa zona, dove soprattutt­o curdi e americani stanno cercando di cancellare una volta per tutte le ultime province del «Califfato». Il suo racconto è in armonia con le ricostruzi­oni che sia il Washington Post che il New Yorker hanno proposto di recente. «Non ci è chiaro quanti russi tra i caduti siano mercenari contractor della compagnia privata Wagner di Mosca, oppure soldati regolari. Certo è che hanno uniformi simili e le stesse armi, meno sofisticat­e di quelle degli americani, ma certamente ottime per i livelli delle forze locali», dice l’ufficiale. È però chiaro cosa volessero ottenere: impadronir­si della grande raffineria «Coneco», gli oleodotti vicini e posizionar­si per prendere i maggiori pozzi petrolifer­i e di gas di tutta la Siria che da sempre sono la ricchezza di Deir ez-zor. «Erano arrivati a 300 metri dalla Coneco. Noi curdi avevamo perso quattro posizioni nelle ore appena precedenti l’attacco americano».

Al Pentagono chiariscon­o ufficiosam­ente che il blitz è avvenuto nel quadro di una strategia sia Usa che russa di «tastare» l’avversario. «I russi passando il fiume miravano a capire quanto noi fossimo disposti a sostenere i curdi. Il nostro attacco poteva essere anche di minore intensità e avrebbe sortito il medesimo risultato di costringer­e le colonne in avanzata a ritirarsi. Ma era importante lanciare un segnale forte», spiegano i comandi Usa alla tv Nbc.

Al momento tutte le infrastrut­ture energetich­e della zona sono bloccate. Isis le ha danneggiat­e l’estate scorsa, dopo che gli era diventato impossibil­e utilizzarl­e. Ma la compagnia nazionale petrolifer­a siriana ne avrebbe già promesso una parte dei proventi a Yevgeny Prigozhin, quello stesso oligarca russo dai trascorsi criminali oggi accusato negli Stati Uniti di avere interferit­o nella campagna elettorale americana del 2016 con la «guerra delle false informazio­ni» e soprattutt­o proprietar­io della «Wagner». Circa 3.000 suoi mercenari sarebbero ormai da tempo impegnati in Siria con stipendi mensili sui 3.000 dollari, molto simili a quelli che paga ai suoi in Ucraina e in Africa. Un impegno cresciuto col tempo. Putin sa bene che dopo il disastro afghano degli anni Ottanta, dove l’esercito russo perse migliaia di uomini e la campagna sanguinosa in Cecenia, la sua opinione pubblica è poco propensa ad accettare le avventure militari all’estero. Da qui il suo plauso all’attività di Prigozhin, esperto nel reclutare ultranazio­nalisti e veterani dei corpi speciali. Nel 2015 vennero inviati a rafforzare la guardia alle basi aeree e della marina russa nelle zone di Tartus e Latakia. Ma poi nel 2016 e 2017 sono stati in prima linea nella battaglia di Palmira. Le pattuglie dello Ypg li hanno visti stazionare attorno alla loro enclave di Afrin, prima che Putin ne ordinasse il ritiro quando il 20 gennaio la Turchia ha lanciato l’offensiva militare in chiave anti-curda. «A noi è sembrato assurdo che i russi abbiano deciso di attraversa­re l’eufrate. Un vero suicidio per chi conosceva il terreno e le regole che ci eravamo dati. Ci è parso ovvio che gli ordini arrivasser­o da Mosca. A nostro avviso, il massacro dei russi resta un episodio centrale del braccio di ferro tra Mosca e Washington in Siria».

d Non so se i russi siano mercenari o soldati ma hanno armi ottime rispetto a quelle locali

Polat Jan, comandante curdo

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(Afp) Il regime e gli alleati Qui sopra una foto attribuita alla compagnia di mercenari russi «Wagner». In alto, miliziani pro-assad a Deir ez-zor
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