Dai grandi raduni popolari alle «repliche» di oggi Così è cambiata la protesta
Negli anni Settanta il giudizio universale non passava per le case. «Perché in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe», cantava Giorgio Gaber. Sappiamo come è andata. La sconfitta del terrorismo, il riflusso, il crollo dei muri e delle ideologie. La piazza è ancora importante, ma si è trasformata nel tempo. In quell’epoca che nessuno di buon senso dovrebbe rimpiangere, la partecipazione, contarsi, il corteo di massa, muovevano quasi da premesse drammatiche come gli attentati e le stragi fasciste. Erano un punto fermo in un Paese che viveva il suo momento più buio.
La storia dell’italia repubblicana è punteggiata da prove di forza popolari. Le piazze piene del 2 giugno 1946 furono il sigillo sul risultato del referendum. La manifestazione e gli scontri del 30 giugno 1960 a Genova segnarono il capolinea del governo Tambroni appoggiato dal Msi. Il lungo decennio dell’eversione e delle tensioni sociali venne scandito da manifestazioni enormi e identitarie. Fu quasi una nemesi la fine di quella stagione, chiusa da un piccolo corteo di appena 40 mila persone, ma forse erano anche meno, che sfilarono nelle strade di Torino per chiedere la riapertura della Fiat. Nel nuovo secolo c’è stata la breve parabola del movimento No global, che aveva comunque una tendenza minoritaria, perché rappresentava una parte di quella nuova generasempre zione di sinistra che nel luglio 2001 fu costretta al ritorno a casa dalla violenza e dal sangue di Genova. Al netto delle manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2003, il comizio del 22 marzo 2002 da due milioni di persone del leader della Cgil Sergio Cofferati al Circo Massimo contro la modifica dell’articolo 18 fu l’ultima, grande manifestazione politica della nostra epoca recente.
Quelle di oggi sembrano copie sbiadite delle piazze del passato. E non solo nei numeri. Non esiste più un sentire comune di sinistra, come dimostrato dai mille distinguo in ordine sparso sull’attentato di Macerata agli immigrati, e dai cortei di ieri, a ognuno il suo. Il riaffacciarsi dei movimenti razzisti e neofascisti non è certo da sottovalutare, anche se in questi giorni è in atto una discreta opera di drammatizzazione a fini elettorali del fenomeno. Ma la protesta violenta è ormai un boomerang. Lo scorso 16 febbraio nel centro di Bologna ci sono stati duri scontri per impedire un raduno di venti militanti di Forza Nuova in una piazza irraggiungibile da chiunque. Venerdì a Torino sono state lanciate bombe carta contro gli agenti di Polizia, per fermare un comizio di Casapound che si teneva nel seminterrato di un hotel.
I due eventi «neri» non potevano certo produrre proselitismo, ma avevano l’unico valore di una prova a se stessi di esistenza in vita, fatta nell’implicita speranza che qualcuno reagisse. Le immagini che resteranno invece sono quelle dei casseur, degli agenti feriti. Quelle manifestazioni, come quella No Expo del primo maggio 2015 che devastò il centro di Milano, dominate da una estetica della violenza che sembra ineludibile come un atto dovuto, hanno l’effetto collaterale di creare un fronte contro l’intero movimento di protesta. Qualunque essa sia, a prescindere dalle sue ragioni. Perché oggi, per fortuna, da qualunque parte arrivi la violenza fa ancora paura. Nell’anno di grazia 2018 forse ci vorrebbe meno rabbia pavloviana, e più immaginazione.