Gli archeologi italiani riportano alla luce la «Pompei africana»
Si scava per ritrovare il porto sulla Via degli Aromi
Scomparsa secoli fa, «per una gigantesca inondazione forse accompagnata da un terremoto». E ora un tesoro alla volta, metro dopo metro, nel deserto dell’eritrea torna alla luce una perla leggendaria del mondo antico.
Adulis è il nome greco dato al porto del regno di Axum, grande emporio Africa-europa sulle rive del Mar Rosso, punto cruciale sulla Via degli Aromi. «Una straordinaria città di pietra, in una parte del pianeta dove è raro trovarne» racconta orgogliosa Serena Massa, docente all’università Cattolica di Milano e direttrice scientifica della missione italo-eritrea che guida questo progetto di riscoperta.
La stagione degli scavi (a sei km dal mare) è appena finita, per via del caldo si riprenderà a fine anno. E’ tempo di studiare e godersi le scoperte, fare l’esame al carbonio sugli scheletri ritrovati, tenendo conto che «siamo solo all’1% del lavoro». Fango e limo hanno ricoperto tutto. Questo rende difficile progredire ma «è anche una fortuna: la fine repentina di Adulis, che ha portato gli storici a tessere il paragone con Pompei, ha preservato le sue bellezze».
Scoperti finora i resti di tre chiese cristiane del V-VI secolo d.c.: «E’ stupefacente — commenta Serena Massa — ritrovare chiese bizantine oltre i confini dell’impero, così splendidamente decorate. Un segno di quanto fosse connesso il mondo di allora».
La terza basilica è stata ritrovata proprio quest’anno. «Non abbiamo ruderi in elevazione — racconta Massa — E dunque ci basiamo sulle carte antiche». E sui taccuini del mercanti: il monacocommerciante del VI secolo Cosma Indicopleuste descrive Adulis, «dove si potevano trovare corni di rinoceronti e zanne di elefante, cannella, spezie e i carapaci di tartaruga che finivano per adornare le case degli aristocratici romani».
Oggi, accanto ai campi di mais dove contadini eritrei praticano un’agricoltura di sussistenza, dalla terra affiorano marmi antichi che venivano da Bisanzio, «alcuni segnati con la stessa firma che si ritrova nella Santa Sofia di Costantinopoli», decorazioni «della più raffinata cultura bizantina del VI secolo» fatti arrivare per la «compagine cosmopolita» che allora prosperava in città.
Da quelle pietre, in Africa, emerge l’idea di un mondo Nord-sud «che aveva rapporti molto più stretti di quanto potremmo immaginare», dice la direttrice Massa. Sul campo, con 5 litri giornalieri di acqua potabile a testa fatta arrivare da lontano, una decina fra archeologi e architetti italiani (all’avventura collabora anche il nostro ministero degli Esteri): i restauratori del Politecnico di Milano, gli esperti dell’orientale di Napoli e del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana accanto a colleghi e studenti dei musei di Asmara e Massaua, «senza i quali il progetto non andrebbe avanti». Con loro si danno il cambio (turni di due settimane) 40 operai «forniti» dal governo, ragazzi e veterani della guerra d’indipendenza. L’anno prossimo si spera che Asmara dia il via libera all’uso di un escavatore, per accelerare le operazioni. C’è una città sepolta da riportare in superficie.
«I turisti già cominciano ad arrivare», dice la dottoressa Massa. Da una parte i turisti, dall’altra i migranti. Chissà cosa scriverebbe sul taccuino il monaco-mercante Cosma, giungesse oggi sul confine eritreo. Da cui arrivano come frecce ragazzi in fuga, non cannella e tartarughe.