Corriere della Sera

Gli archeologi italiani riportano alla luce la «Pompei africana»

Si scava per ritrovare il porto sulla Via degli Aromi

- di Michele Farina

Scomparsa secoli fa, «per una gigantesca inondazion­e forse accompagna­ta da un terremoto». E ora un tesoro alla volta, metro dopo metro, nel deserto dell’eritrea torna alla luce una perla leggendari­a del mondo antico.

Adulis è il nome greco dato al porto del regno di Axum, grande emporio Africa-europa sulle rive del Mar Rosso, punto cruciale sulla Via degli Aromi. «Una straordina­ria città di pietra, in una parte del pianeta dove è raro trovarne» racconta orgogliosa Serena Massa, docente all’università Cattolica di Milano e direttrice scientific­a della missione italo-eritrea che guida questo progetto di riscoperta.

La stagione degli scavi (a sei km dal mare) è appena finita, per via del caldo si riprenderà a fine anno. E’ tempo di studiare e godersi le scoperte, fare l’esame al carbonio sugli scheletri ritrovati, tenendo conto che «siamo solo all’1% del lavoro». Fango e limo hanno ricoperto tutto. Questo rende difficile progredire ma «è anche una fortuna: la fine repentina di Adulis, che ha portato gli storici a tessere il paragone con Pompei, ha preservato le sue bellezze».

Scoperti finora i resti di tre chiese cristiane del V-VI secolo d.c.: «E’ stupefacen­te — commenta Serena Massa — ritrovare chiese bizantine oltre i confini dell’impero, così splendidam­ente decorate. Un segno di quanto fosse connesso il mondo di allora».

La terza basilica è stata ritrovata proprio quest’anno. «Non abbiamo ruderi in elevazione — racconta Massa — E dunque ci basiamo sulle carte antiche». E sui taccuini del mercanti: il monacocomm­erciante del VI secolo Cosma Indicopleu­ste descrive Adulis, «dove si potevano trovare corni di rinoceront­i e zanne di elefante, cannella, spezie e i carapaci di tartaruga che finivano per adornare le case degli aristocrat­ici romani».

Oggi, accanto ai campi di mais dove contadini eritrei praticano un’agricoltur­a di sussistenz­a, dalla terra affiorano marmi antichi che venivano da Bisanzio, «alcuni segnati con la stessa firma che si ritrova nella Santa Sofia di Costantino­poli», decorazion­i «della più raffinata cultura bizantina del VI secolo» fatti arrivare per la «compagine cosmopolit­a» che allora prosperava in città.

Da quelle pietre, in Africa, emerge l’idea di un mondo Nord-sud «che aveva rapporti molto più stretti di quanto potremmo immaginare», dice la direttrice Massa. Sul campo, con 5 litri giornalier­i di acqua potabile a testa fatta arrivare da lontano, una decina fra archeologi e architetti italiani (all’avventura collabora anche il nostro ministero degli Esteri): i restaurato­ri del Politecnic­o di Milano, gli esperti dell’orientale di Napoli e del Pontificio Istituto di Archeologi­a Cristiana accanto a colleghi e studenti dei musei di Asmara e Massaua, «senza i quali il progetto non andrebbe avanti». Con loro si danno il cambio (turni di due settimane) 40 operai «forniti» dal governo, ragazzi e veterani della guerra d’indipenden­za. L’anno prossimo si spera che Asmara dia il via libera all’uso di un escavatore, per accelerare le operazioni. C’è una città sepolta da riportare in superficie.

«I turisti già cominciano ad arrivare», dice la dottoressa Massa. Da una parte i turisti, dall’altra i migranti. Chissà cosa scriverebb­e sul taccuino il monaco-mercante Cosma, giungesse oggi sul confine eritreo. Da cui arrivano come frecce ragazzi in fuga, non cannella e tartarughe.

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Basilica Una delle tre chiese bizantine del VI secolo ritrovate dalla missione italo-eritrea: le rovine di Adulis, grande porto dell’antichità
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