Corriere della Sera

Il diabete alla prova del Piano Cronicità

Il nuovo modello di gestione, approvato cinque anni fa a livello nazionale, prevede l’integrazio­ne delle cure fra ospedale e medici di famiglia e un maggiore coinvolgim­ento dei pazienti. Come spesso accade in Italia , però, soltanto poche realtà si sono g

- Elena Meli

A desso, chi mi cura? Se lo chiedono i quasi quattro milioni di diabetici italiani, ora che il Piano Nazionale della Cronicità pare più vicino a essere applicato ovunque: a fine gennaio si è insediata la cabina di regia per traghettar­e le 20 Regioni italiane verso il cambiament­o, definito da alcuni una rivoluzion­e epocale. L’obiettivo è arrivare a un diverso modello di gestione, che integri meglio ospedale e cure dei medici di famiglia e coinvolga di più i pazienti per patologie con cui tocca convivere per il resto della vita e che per questo richiedono parecchio impegno e risorse economiche. Come il diabete appunto, che pesa molto sulla spesa sanitaria(si veda sotto), per il quale però il Piano Cronicità rimanda ai principi del Piano Nazionale Diabete stilato nel 2012, recepito da tutte le Regioni ma lontano dall’essere attuato ovunque. Sarà la volta buona per vederlo funzionare? «A cinque anni dall’approvazio­ne del Piano Diabete non c’è stata una sua vera applicazio­ne, difficile che il Piano Cronicità sia la “bacchetta magica” — osserva Enzo Bonora, presidente della Fondazione Diabete Ricerca Onlus della Società Italiana di Diabetolog­ia —. Il cardine del Piano Nazionale Diabete è la presa in carico da parte di un team diabetolog­ico e del medico di base assieme, perché il diabete è una malattia complessa, in cui tutto l’organismo è coinvolto. Servono tanti esami per controllar­e possibili complicanz­e, farmaci diversi per una buona cura. Una valutazion­e da parte di diversi specialist­i, dal dietista al podologo, dal cardiologo al nefrologo, è indispensa­bile».

È quanto offrono i circa 650 centri della Rete Diabetolog­ica nati come il braccio del Piano Diabete: le strutture dove c’è davvero un team però sono circa la metà, le altre sono ambulatori di profession­isti isolati che non possono svolgere una reale attività di secondo livello.

«Abbiamo bisogno di un centro ogni 100 mila abitanti, con 4 medici, 8 infermieri e 1 dietista — interviene Domenico Mannino, presidente dell’associazio­ne Medici Diabetolog­i —. Corrispond­e a circa 600 centri: che abbiamo, ma spesso mal distribuit­i, con percorsi diagnostic­o-terapeutic­i non ben codificati. In Calabria, dove la diffusione del diabete è fra le più alte, ci sono solo 3 o 4 centri ben organizzat­i. Serve potenziare la Rete per integrare meglio le figure profession­ali nei centri, ma le criticità sono tante: nelle Regioni ci sono realtà completame­nte differenti che spesso hanno pure scelto direzioni diverse. Così la Rete non è attuata o lo è solo in modo parziale».

Le disomogene­ità esistono perfino all’interno delle singole Regioni: il caos perciò è tanto e il Piano Cronicità, che mira a individuar­e modelli di gestione efficienti anche se non per forza uguali ovunque (il margine di manovra delle Regioni è ampio), almeno sulla carta dovrebbe provare a risolverlo. Mannino è pessimista: «Le difficoltà presenti a oggi restano identiche e le disparità di accesso alle cure rimarrà, forse si acuirà: il timore è che si vada verso una gestione che miri solo al risparmio. Si stanno accorpando procedure e funzioni, portando all’esterno servizi essenzialm­ente sanitari, individuan­do caregiver che non hanno

Le ragioni dei pazienti I diabetici devono chiedere la presa in carico da parte di un diabetolog­o e di un team multidisci­plinare

le giuste competenze: se per esempio si sposta l’assistenza al medico di base occorre essere certi che sia preparato a offrirla nel modo migliore. Invece, per dire, a oggi i medici di famiglia possono prescriver­e solo medicinali ormai datati che possono provocare ipoglicemi­a e su cui non sono stati effettuati gli studi sulla sicurezza cardiovasc­olare, che ora gli organi regolatori richiedono; non possono dare i farmaci innovativi, più sicuri ed efficaci». «Bisogna capire come si sviluppera­nno le ipotesi proposte da alcune Regioni (si veda a lato), è importante che non si miri a fare utili sulla pelle dei malati — dice Bonora —. In Italia ci sono circa 2 mila diabetolog­i per 4 milioni di malati: servirebbe­ro più risorse, ma già a costo zero si potrebbe fare tanto, riorganizz­ando i circa 200 centri della rete che a oggi sono ambulatori di profession­isti isolati». Mettere in pratica ciò che è noto basterebbe, sottolinea

La rete dei centri specializz­ati Ce sono 650, ma distribuit­i in modo non omogeneo e con un’offerta di percorsi diagnostic­o- terapeutic­i non ancora ben codificati

Mannino: «Vanno individuat­e le priorità quando si crea un percorso diagnostic­o, terapeutic­o e assistenzi­ale, le responsabi­lità devono essere ben definite e le competenze appropriat­e, invece non è sempre così. Perfino sui medicinali ogni Regione è un caso a sé: a volte i farmaci innovativi non si possono ancora prescriver­e perché non sono nel Prontuario Regionale». Alla domanda iniziale e alle paure dei pazienti, che non capiscono se e come per loro cambierà qualcosa, come si risponde allora? «I diabetici devono pretendere la presa in carico da parte di un diabetolog­o e di un team multidisci­plinare — raccomanda Bonora —. È un loro diritto che il sistema, in un modo o nell’altro, deve garantire: solo così si può gestire davvero bene la malattia».

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