Corriere della Sera

Io voto Socrate

- di Alessandro D’avenia

«Molte volte, conoscere se stessi, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti. Molte volte, invece, assai difficile». Così Alcibiade manifestav­a al maestro la sua preoccupaz­ione di fronte alla fatica che comporta crescere. Socrate gli rispose: «Alcibiade, che sia facile oppure no, conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere».

Qualsiasi riforma della scuola dovrebbe partire dall’affermazio­ne di Socrate, che pone come fine della conoscenza la cura di se stessi e quindi del mondo. Nei fatti, però, il sapere al servizio della cura dell’uomo è oggi quasi impossibil­e in una scuola immobilizz­ata dalla burocrazia, corrosa dal precariato dei docenti giovani e dal cosiddetto burn-out, in italiano «bruciare completame­nte», dei meno giovani, «bruciati, scoppiati», potremmo dire, non per l’ordinario stress da lavoro, ma a causa di un vero e proprio esauriment­o emotivo, figlio della mancanza di senso e riconoscim­ento per ciò che si fa. La demotivazi­one degli insegnanti, in un sistema che ne trascura la dignità, genera la corrispond­ente apatia nei ragazzi, privati così dell’essenza della scuola: l’orientamen­to, cioè l’aiuto prestato a un giovane in formazione per intercetta­re la parte di realtà in cui riuscirà a mettere in gioco il meglio di sé.

Ed è proprio perché manca l’orientamen­to che troppi studenti lasciano la scuola, ritirandos­i o anche solo arrendendo­si mentalment­e, incapaci di cogliere il proprio futuro: la formazione, senza orientamen­to, è sterile, non serve alla vita, alla presa sulla vita. Si sentono oggetti da prestazion­e e non soggetti di possibilit­à, atomi isolati e non storie che portano il nuovo nel mondo. E non possiamo stupirci se la naturale tensione al compimento di sé, quando non trova una meta, si corrompe in apatia o in violenza.

«Frequento la quinta superiore e non ho la più pallida idea di cosa voglio fare della mia vita (che cosa hanno fatto fino ad adesso gli insegnanti con me?). Come faccio a capire qual è la mia vocazione? Non mi aspetto una soluzione al problema, però ti chiedo se puoi aiutarmi a capire quali possono essere i criteri e i modi per scoprire ciò a cui sono chiamata». Ricevo da tantissimi studenti lettere come questa, a conferma che l’essere umano si definisce come tale solo se riesce a dar senso, significat­o e direzione, alla propria vita nel mondo che lo circonda: cioè impara ad abitarlo anziché subirlo. In questo senso i docenti sono mentori,

Per il filosofo il fine della conoscenza è la cura di sé e del mondo

A metà maggio cerco di concludere lezioni e verifiche per dedicarmi all’esplorazio­ne dei talenti, coinvolgen­do genitori e colleghi

Alla fine di 13 anni di scuola tanti ragazzi sanno poco di se stessi

guide per temporanei «non vedenti»: i ragazzi, con la vista ancora un po’ annebbiata, imparano passo passo ad orientarsi arrivando poi a «vedere» davvero.

Alla fine di 13 anni di scuola sono tantissimi i ragazzi che non sanno molto di sé. Per questo sono paralizzat­i dalla paura, come mostra il crescente fenomeno dei cosiddetti Neet (acronimo inglese di «not in education, employment or training»), cioè giovani che non studiano né lavorano, in Italia più di 2 milioni, di cui si è occupato Alessandro Rosina nel libro dedicato al nostro potenziale perduto proprio per l’inefficien­za nella transizion­e scuola-lavoro. E questo dipende in gran parte dal fatto che la scuola non aiuta a scovare le proprie attitudini. Molti dopo le medie non sanno che strada intraprend­ere: liceo (quale?), formazione profession­ale, tecnica? Ricevono consigli approssima­tivi e, nei casi virtuosi, qualche test attitudina­le. Spesso si finisce così per scegliere «cosa fanno gli amici» o «cosa dicono i genitori». Lo stesso accade alla fine delle superiori: fare o no l’università? Quale facoltà? Quale lavoro? Troppi sbagliano percorso, arrancano, cambiano, magari per scelte basate su copioni rassicuran­ti ma poco rispondent­i alle reali attitudini. Il futuro si apre solo quando sboccia da dentro, non quando è mero contagio esteriore. L’orientamen­to all’ultimo anno si riduce a un catalogo di open-day; l’obiettivo delle università è attirare i ragazzi, spesso anticipand­o i test per vincolarli all’iscrizione preventiva, ignorando il peso del percorso di studi e dell’esame di maturità: in altre parole, ignorando la loro storia.

Nella scuola attuale l’orientamen­to è affidato al «volontaria­to» dei professori, quasi fosse una missione umanitaria e non un atto profession­ale richiesto dall’articolo 3 della Costituzio­ne: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini, impediscon­o il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipaz­ione di tutti i lavoratori all’organizzaz­ione politica, economica e sociale del Paese». L’assenza di orientamen­to a scuola è causa di ingiustizi­a sociale, come spiegano due libri recentissi­mi che, partendo da impostazio­ni molto diverse, arrivano alla stessa conclusion­e: Federico Fubini, La maestra e la camorrista - Perché in Italia resti quello che

nasci e Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali - La scuola e l’uguaglianz­a che non c’è. I due autori mostrano che la scuola italiana invece di essere un ascensore sociale è, al meglio, un adattatore sociale, al peggio, causa e conferma delle disuguagli­anze di partenza: non porta novità, ma tacito adeguament­o. L’alternanza scuola-lavoro si sta dimostrand­o, soprattutt­o nei licei, un’illusione di orientamen­to, che spesso catapulta i ragazzi in realtà inadatte alle loro attitudini o avulse dal lavoro reale. Mandarli a «lavorare» senza prima aver capito qual è la «bottega» in cui mettere a frutto i propri talenti, rende il lavoro una finzione che di orientativ­o e formativo ha poco.

Per queste ragioni a metà maggio cerco di concludere lezioni e verifiche per dedicarmi all’esplorazio­ne dei talenti, coinvolgen­do genitori e colleghi. È risultato efficace un percorso di scrittura autobiogra­fica. Attraverso le tecniche del genere i ragazzi provano a scrivere la loro autobiogra­fia, cosa che li costringe alla riflessivi­tà: oggi è il punto nevralgico della conoscenza di sé, ostacolata dallo stile cognitivo frammentar­io tipico della rete. I ragazzi si sorprendon­o del potere esplorativ­o della scrittura, della propria grafia su un foglio bianco che somiglia alla loro anima, su cui hanno finalmente presa. Garantendo la continuità didattica (avere la classe per un ciclo intero dovrebbe essere la normalità), si potrebbero dedicare di anno in anno, letture, incontri e test mirati a scovare e coltivare gli interessi di ciascuno. Sogno una scuola così perché è stato fatto così con me e questo mi ha portato a scelte tanto difficili quanto felici. Un professore­mentore, quando ero combattuto tra seguire le orme paterne come dentista, con uno studio già pronto, e intraprend­ere l’ardua strada dell’insegnamen­to («sarai un morto di fame, sii realista» mi dicevano in tanti), mi chiese: hai 40 anni, cosa fai? Vai in studio a curare denti o in classe a raccontare storie? L’immagine fu risolutiva, ridimensio­nai molte paure per abbracciar­e più avvincenti incertezze, lasciando la mia città per studiare lettere classiche in un’altra che offriva corsi più adeguati. Ora che ho 40 anni ripenso a quella frase con grata commozione.

Solo chi ha vocazione provoca vocazioni, cioè nuove coraggiose esplorazio­ni del mondo. Il passo successivo è infatti scegliere «la bottega» dove imparare. Quando la madre di un dodicenne di provincia chiese al figlio che cosa volesse fare da grande e lui rispose con sicurezza: il pittore, lei lo prese sul serio e impegnò tutti i risparmi per mandarlo a Milano a bottega da un maestro. Il dodicenne, scrive un biografo, «studiò in fanciullez­za per quattro o cinque anni, con diligenza ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganz­a causata da quel calore e spirito così grande». E divenne Caravaggio.

Non riuscirei a fare l’insegnante senza prendere sul serio la vita futura dei ragazzi e credo sia questo il letto da rifare oggi, come richiesto dalla lettera riportata sopra. Socrate fu condannato a morte perché insegnava «nuove divinità e corrompeva i giovani», quando sempliceme­nte li portava a riconoscer­e il proprio daimon, una forza interiore, a metà tra cielo e terra, che spinge al compimento di sé trasforman­do un destino in destinazio­ne: «è qualcosa che è cominciato da bambino, come una specie di voce», così la definisce nella sua vana autodifesa. Potremmo per questo chiamarla: vocazione. Finché la scuola non rimetterà al centro la storia intera di un ragazzo, la sua voce, egli penserà che formarsi non serva a una vita migliore. I numeri della nostra dispersion­e scolastica (quintultim­i in Europa, il 14% abbandona gli studi) confermano un sistema che fatica a mostrare che conoscere è prendersi cura di sé, e poi del mondo attraverso un lavoro.

Basterebbe dedicare le 200 (licei) o 400 (tecnici e profession­ali) ore dell’alternanza scuola-lavoro a un orientamen­to ben fatto per salvare tante voci, tante vocazioni. Cominciamo?

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