Flórez entusiasma la Scala, lezione di stile con «Orphée et Euridice»
Dove tumulti e passioni trovano espressione in un bello ideale fatto d’eleganza, misura e compostezza, lì è il teatro musicale di Christoph Willibald Gluck, oasi settecentesca quasi nascosta tra le sublimi isterie del barocco e il celeste realismo mozartiano. In tal senso l’edizione di Orphée et Euridice proveniente da Londra e in scena alla Scala fino al 17 marzo — quella francese del 1774, ampliamento della italiana del ’62 — è uno spettacolo perfettamente centrato, che si gode dalla prima all’ultima nota. L’orchestra in scena, su un ponteascensore che sale al cielo o sprofonda sottoterra; il coro e il corpo di ballo come fusi tra loro in un vuoto fatto solo di luci; la recitazione sobria, antiromantica degli interpreti: questi gli ingredienti di una messinscena fredda in superficie e intensa nella sostanza emotiva, che lascia in primo piano il potere incantatorio di questa musica ispiratissima. Solo elogi ai registi Hofesh Shechter (anche coreografo) e John Fulljames; a Conor Murphy, autore di scene e costumi opportunamente neutri; a Lee Curran, che disegna luci morbide e avvolgenti. Da manuale il contributo di Michele Mariotti, perché con l’orchestra scaligera trova una corda espressiva appassionata senza essere inutilmente estroversa. Raro che il vibrante e l’elegante vadano così a braccetto. E se Christiane Karg e Fatma Said sono ottime interpreti, Juan Diego Flórez offre una lezione di stile. Il timbro è più scuro e l’emissione meno spavalda di una volta ma la classe è sempre quella. Agilità e legato sono ancora da brividi lungo la schiena. Interminabili gli applausi.