PITTURA COME URGENZA
La dimensione più intima di un gigante
Lo diceva solo agli amici, ma il suo desiderio più sincero era quello di essere ricordato come pittore. Anzi, come un grande pittore. E lo sussurrava con ironia, come quando, parlando delle sue opere, diceva che avrebbero potuto (ma intendeva dovuto) avere le quotazioni del suo amico Bob. E Bob era Rauschenberg. Certo, per Gillo Dorfles, non è stato facile affermare quella parte di sé che amava di più: il suo essere magistralmente eclettico, ovvero sofisticato critico, filosofo e fenomenologo del gusto, saggista capace di analizzare e intercettare come nessun altro le tendenze estetiche del Novecento. Così, agli occhi del mondo, la sua pittura veniva vista come secondaria rispetto alla grandezza del suo pensiero di intellettuale. E lui ne soffriva. Ma forse non si rendeva conto di quanto fosse difficile per i critici confrontarsi con un gigante come lui. Solo negli ultimi anni, la sua produzione è diventata più prolifica e c’è stata anche una felice attenzione al suo lavoro artistico.
E che la pittura fosse per lui non una passione, ma una «intima necessità» lo si comprende dal lungo e coerente percorso, che viene sin dagli anni giovanili in cui vedeva il padre, un ingegnere navale, tracciare sui fogli di lavoro dei segni informi, dei mostriciattoli come tracce di pensieri vaganti. Dal 1935, anno del suo esordio pittorico, quella è stata l’ispirazione che lo ha accompagnato, trasformando quelle impronte della memoria, legate a un ricordo familiare, in un linguaggio astratto, autonomo, rigoroso, riconoscibile. D’altronde, Dorfles (che per inseguire i voleri della famiglia si era laureato in medicina e aveva scelto la specialistica in psichiatria) conosceva perfettamente i meccanismi della mente.
I suoi quadri astratti nascevano attraverso gesti spontanei, naturali, che provenivano dal profondo. Prendevano forma attraverso una pittura ininterrotta, con il pennello che non si staccava mai dalla tela e che creava una scrittura liquida, fluida e al tempo stesso compatta, con segni precisi che si sovrappongono, fondendosi in una dimensione vibrante e vitale. Non a caso, guardando con occhi attenti, nell’astrazione dei suoi quadri si possono scorgere sempre degli occhi. È come se quei segni colorati, informi e stratificati, fossero paesaggi interiori, o forse solo il racconto più autentico di una complessità che lo ha sempre accompagnato. In fondo, la sua pittura è stata, sempre, un ripetuto autoritratto. E forse oggi, appare più chiara la frase che ha voluto accompagnasse la sua opera per la copertina de «la Lettura»: «La complessità non nuoce».
Fondatore nel 1948 con Munari, Soldati e Monnet del Mac («Movimento arte concreta») Dorfles ha creato una pittura che di fatto è una dichiarazione del suo essere contro: contro le mode, i conformismi, le convenzioni.
Oltre a Paestum, il suo «luogo della pittura» è stato Lajatico, in provincia di Volterra. In una fotografia di solo un paio d’anni fa, lo si vede con il vecchio amico Arnaldo Pomodoro mentre guarda dei disegni: camicia blu, pantaloni giallo senape, ai piedi scarpe da ginnastica All Stars rosse: se non fosse stato per il volto segnato dal tempo, sembrava un ragazzo. Dipingeva anche nel suo piccolo studio nella casa di Milano, dove non faceva entrare nessuno. Dei suoi dipinti era gelosissimo.
Era capace anche di gesti inaspettati ed eclatanti: un anno fa, al comandante generale dei carabinieri, che lo voleva ringraziare per un testo per il calendario dell’arma, di fronte alla domanda di cortesia: «Posso fare qualcosa per lei, professore?», il professore rispose
d
Ha continuato instancabilmente e fino alla fine a esplorare le forme e i linguaggi del suo tempo, ad associare, decifrare, smascherare, scoprire, mostrare, dipingere, scrivere, spiegare. Ha continuato oltre ogni limite ad essere ciò che è sempre stato: laico senza pregiudizi
Autobiografia su tela
I suoi quadri astratti nascevano attraverso gesti spontanei: la sua pittura è stata, sempre, un autoritratto
senza esitazioni: «Mi piacerebbe avere una divisa dei carabinieri». Il generale mandò subito un sarto a prendere le misure, poi con una cerimonia privata consegnò a Dorfles la divisa, con tanto di sciabola e conferendogli ufficialmente (a lui che era stato tenente medico del «Savoja Cavalleria») il grado di capitano. Gillo non l’ha mai indossata in pubblico, ogni tanto si divertiva a portarla in casa per la gioia di qualche amico. Un vero gesto dadaista.
Le ultimissime opere su carta (diventate una mostra in Triennale), le ha fatte sul tavolo del suo soggiorno, sotto le opere dei suoi amici Enrico Castellani e Lucio Fontana. Era una mostra chiamata Vitriol e che rappresenta il suo testamento spirituale. Vitriol è uno degli acronimi più utilizzati dagli alchimisti, le cui iniziali stanno al posto di «Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem», ovvero «Visita l’interno della terra e, con successive purificazioni, troverai la pietra nascosta». Una frase derivante dall’esortazione «Conosci te stesso», massima iscritta nel tempio di Apollo a Delfi. Certo, con la sua intensa esistenza, «dove la complessità non nuoce» Dorfles ha dimostrato, davvero, di conoscere se stesso. Anche quando, in viaggio verso Trieste per una sua mostra, di fronte all’amico fotografo Danilo De Marco, che gli suggeriva di andare a visitare la tomba del filosofo goriziano Carlo Michelstaedter, Gillo rispose sussurrando con un sorriso: «Sai, di questi tempi, non ho tanta voglia di frequentare cimiteri».