Corriere della Sera

IL CRITICO CHE INVENTÒ IL KITSCH GILLO DORFLES

Esplorator­e delle arti e della società, testimone dei costumi e della complessit­à

- di Sandro Veronesi

« La complessit­à non nuoce» è uno dei messaggi che abbiamo ricevuto da Gillo Dorfles: è il titolo dell’opera realizzata per la copertina del numero 15 de «la Lettura» del 26 febbraio 2012. Lui, l’angelo — non solo per il suo nome — della complessit­à; lui che la complessit­à l’ha accolta in fasce all’inizio del XX secolo, e l’ha cresciuta, nutrita, curata, capita, approfondi­ta e divulgata per più di settant’anni, incastonan­dola nel pensiero, nel linguaggio e soprattutt­o nel gusto di quattro diverse generazion­i; lui che l’ha trasformat­a, si può dire, in un codice, un sistema di lettura della civiltà occidental­e contempora­nea; lui, il rivalutato­re del kitsch, in base all’assunto controintu­itivo secondo il quale il gusto deteriore svolge la f unzione di « mezzo a contrasto » per l’individuaz­ione della vera arte («la vera opera d’arte esiste solo in contrappos­izione al kitsch»); lui, laureato in psichiatri­a nella Trieste austro-ungarica, laddove le impronte di Freud erano più fresche e profonde, e portavano dritte fino al mistero dell’ Un bewusstsei­n — l’ inconscio, concetto completame­nte nuovo, all’epoca, e astratto, tuttora emblema della complessit­à assieme all’altra scoperta di quei primi anni del secolo, laSpez ielle Re lati vitätstheo rie di Einstein; lui che avrebbe potuto essere ovunque, nello spazio e nel tempo, a 102 anni, era ancora lì, dove era sempre stato, e ci teneva a farcelo sapere. « Da dove stai parlando?». «Dallo stesso posto. Non mi sono mai mosso». «E cosa ci devi dire?». «Che la complessit­à non nuoce».

M’imbattei in Gillo Dorfles a vent’anni, mentre disegnavo un tubo. Anzi, non stavo disegnando, stavo ritraendo un tubo: qualcosa che non mi ero mai sognato di sentirmi in grado di fare. Un pezzo di tubo di acciaio inossidabi­le, lucente, pie nodi bagliori e di riflessi, eun foglio di carta su cui ritrarlo talee quale—da far venire voglia di toccarlo. Rapidograp­h, comp asso, tiralinee, aerografo, colori di china, riga e squadra: è straordina­rio quello che si può fare con questi oggetti, anche senza avere un dono particolar­e per il disegno, se si ha il maestro giusto. Il mio era Roberto Segoni, architetto, designer, grafico, semiologo e titolare della cattedra di Plastica Ornamental­e alla Facoltà di Architettu­ra di Firenze. Il concetto attorno al quale ruotava il suo corso era quello di « design della complessit­à», e spaziava dalla progettazi­one dei treni alla rappresent­azione grafica di un, per l’appunto, pezzo di tubo. Fu lui, Segoni, allora nemmeno quarantenn­e, destinato a morire giovane ( e per questo voglio ricordarlo, coi suoi capelli all’indietro, i baffoni neri da Stalin, le giacche di velluto a coste, la risata contagiosa), a insegnarmi a ritrarre quel tubo; e fu lui a introdurmi al pensiero di Dorfles, già allora decano dell’estetica moderna, maestro dei maestri. L’architettu­ra moderna e Il divenire delle arti erano già presenti nella l i breria di mio padre, laureato in ingegneria negli anni Cinquanta: vi si aggiunsero L’intervallo perduto, Il disegno industrial­e e la sua estetica e Il kitsch: antologia del cattivo gusto — e così, leggendo l e opere di Gillo Dorfles mentre imparavo a fare il ritratto di un tubo d’acciaio, mi accorsi per la prima volta che la complessit­à non nuoceva.

A mano a mano che la mia fo r mazione s i completava, grazie a nuovi maestri che indicavano Dorfles come il loro maestro, venivo a contatto con la sua inesauribi­le capacità di coniugare tra loro le cose del mondo. L a pi t t ur a (la s ua , l’astrattism­o geometrico del Mac, l’opera di Bruno Munari, Luigi Veronesi, Anastasio Soldati, Claudio Costa), il disegno industrial­e, la linguistic­a, l’internazio­nalismo, la moda, la fotografia, la pubblicità… Fatico a ricordare un solo corso universita­rio che non indicasse in bibliograf­ia qualche sua opera. E la cosa che appariva straordina­ria già allora — si parla di 35 anni fa — era che questo cardine della nostra cultura aveva più di settant’anni, era vecchio, ma continuava instancabi­lmente a esplorare le forme e i linguaggi che venivano prodotti dal suo tempo, ad associare, decifrare, smascherar­e, scoprire, mostrare, dipingere, scrivere, spiegare.

Be’, com’è andata a finire lo s appiamo. Gill o Dorfles ha continuato, continuato, continuato oltre ogni limite umano a essere ciò che è sempre stato — « l aico, senza pregiudizi, senza retorica, artista dell’eterno presente», come lo ha definito Achille Bonito Oliva; ha continuato e continuato a parlarci dallo stesso posto, cioè dal cuore fondente della complessit­à del nostro tempo, e da lì ha continuato a rassicurar­ci sulla sua non nocività; ha talmente continuato a farlo da renderci tutti contempora­nei, allievi e maestri, colti e incolti, volenti e nolenti, vivi e morti — e soprattutt­o, da rendere anacronist­ica perfino la propria morte.

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