Corriere della Sera

Nella cella di Aldo Moro ora dormono due bimbe

Dall’appartamen­to di via Montalcini al covo di via Gradoli, ecco cosa resta

- di Giovani Bianconi

Nella stanza dove fu recluso Aldo Moro, ostaggio delle Brigate rosse dal 16 marzo al 9 maggio 1978, ora dormono due bambine di 7 e 4 anni. È la camera da letto e dei giochi delle figlie della famiglia che abita in via Camillo Montalcini 8, piano 1 interno 1. La «prigione del popolo» allestita dai terroristi in una ordinata palazzina piccolo-borghese alla periferia sud di Roma non ha più nulla di ciò che fu quarant’anni fa, quando in quell’appartamen­to di oltre cento metri quadrati, completo di giardino, cantina e garage dove avvenne l’esecuzione dell’ostaggio, abitavano i militanti delle Br Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari e Germano Maccari, con Mario Moretti che andava e veniva per interrogar­e il prigionier­o. La cella di Moro era nascosta dietro un muro improvvisa­to che copriva un’intercaped­ine larga poco più di un metro e lunga quattro.

Anche fuori l’ambiente è cambiato. Nello spazio verde sull’altro lato della strada, all’epoca abbandonat­o, oggi c’è un bel parco attrezzato, all’ingresso il capolinea degli autobus. Sui muri campeggian­o un paio di graffiti illeggibil­i e una scritta neofascist­a contro Laura Boldrini. Nient’altro che evochi i contrasti politici di oggi, e tantomeno quelli del 1978, quando in questo luogo cambiò la storia d’italia.

La casa dove Moro fu segregato fu acquistata nel 1977 dalla Braghetti, non ancora entrata in clandestin­ità, che restò ad abitarci per qualche tempo dopo la conclusion­e del sequestro e lo smantellam­ento della prigione. Sul parquet, a terra, rimase il segno della parete rimossa. Nel ’79 la brigatista vendette l’appartamen­to alla stessa cifra a cui l’aveva comprato, 50 milioni di lire, e l’acquistò il capofamigl­ia del quarto piano, per la suocera. Ignaro di tutto. Finché un giorno bussarono gli investigat­ori, la signora mostrò il contratto d’acquisto dove compariva il nuovo indirizzo della Braghetti, che fu arrestata poco dopo. Poi si scoprì che quel covo era stato il carcere di Moro, e il segno sul parquet rimase lì a ricordarlo finché nel 2008 — dopo la morte della signora e l’ingresso di una nipote — i lavori di ristruttur­azione tolsero ogni traccia. Non prima di un contatto con la famiglia Moro: «Voi avrete sempre il diritto di venire in questo luogo, ogni volta che vorrete». Un esempio di memoria privata che va oltre il tempo trascorso e la mutazione dei luoghi.

L’anno scorso sono tornati qui i carabinier­i del Ris, che in garage hanno fatto nuovi rilievi e prove di sparo per verificare la versione brigatista dell’omicidio, portando in via Montalcini una Renault 4 uguale a quella in cui fu riconsegna­to il cadavere dell’ostaggio. Conclusion­e: «Si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessar­e un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro».

Diciotto chilometri più a nord, dall’altra parte della città, una sbarra a comando regola l’accesso in via Gradoli, una traversa della Cassia, dove c’era la base br abitata da Mario Moretti. «Certamente il luogo più enigmatico», scrive l’autore televisivo Roberto Fagiolo nel suo recentissi­mo Topografia del caso Moro (Nu- trimenti editore). Il 18 aprile, un mese dopo la strage di via Fani, un’infiltrazi­one d’acqua dal secondo piano della palazzina B, interno 11, provocò l’irruzione dei vigili del fuoco: saltarono fuori armi e documenti delle Br, ma il sedicente ingegnere Mario Borghi, che l’aveva affittata tre anni prima, riuscì a farla franca insieme all’altra inquilina, la brigatista Barbara Balzerani. Poi si scoprì che già all’indomani del sequestro, il 18 marzo, la polizia aveva controllat­o l’edificio, all’interno 11 nessuno aprì e gli agenti se ne andarono; nonostante la signora di fronte sostenesse di aver sentito trasmetter­e nottetempo messaggi con l’alfabeto Morse (mai confermati). Seguirono la segnalazio­ne su «Gradoli» giunta da una seduta spiritica, che portò gli investigat­ori in un paese del viterbese ma non nella via omonima, e la successiva scoperta di appartamen­ti in zona nella disponibil­ità dei servizi segreti. Ancora oggi, dice un inquilino che all’epoca non era nato, molte case sono intestate a società, «e chissà chi c’è dietro».

Sul cancello gli annunci di vendite e affitti sono scoloriti dal tempo, l’appartamen­to delle Br è vuoto. Fino a dicembre era abitato da un anziano signore morto in solitudine, l’amministra­tore è alla ricerca degli eredi. Nessuno degli attuali inquilini era qui quarant’anni fa. Il portiere — un cingalese arrivato nel 1999 — ha sentito parlare di Moro e delle Br solo dopo tanto tempo, in occasione di un altro caso di cronaca dai risvolti politici emerso dal sottoscala del palazzo: gli incontri della transessua­le Natalie, frequentat­a dall’allora presidente della Regione Lazio. Era il 2009, e per interrompe­re il viavai di giornalist­i, curiosi e clienti fu montata la sbarra che oggi protegge la tranquilli­tà degli abitanti e i segreti veri o presunti di quarant’anni fa.

Da qui Mario Moretti portava i testi dei comunicati brigatisti nella tipografia di via Pio Foà 31, quartiere Monteverde. La polizia la individuò negli ultimi giorni del sequestro, ma l’irruzione avvenne dopo il 9 maggio. Tra macchine da scrivere e stampatric­i c’era pure una fotocopiat­rice dismessa dal ministero della Difesa, particolar­e che ha alimentato ulteriori sospetti. Oggi dietro la stessa saracinesc­a lavora un tappezzier­e che ha acquistato il locale nel 1994. Delle Br ha avuto i racconti del barbiere che lavorava nel negozio accanto, dove si appostavan­o i poliziotti durante i pedinament­i; ora il barbiere è in pensione, al suo posto c’è un parrucchie­re per signore. Di fronte abitava il leader comunista Giancarlo Pajetta insieme alla giornalist­a Miriam Mafai, morta nel 2012, da cui ha preso il nome della Fondazione che ha sede nello stesso, anonimo palazzo. Di fianco, lungo la rampa che porta ai garage, un materasso sull’asfalto e un paio di coperte, accanto a un fornellett­o e due pentole sporche, sono il ricovero di un senzatetto; quarant’anni fa sarebbe stato un testimone utile per l’antiterror­ismo, oggi lo è di una nuova emergenza.

A breve distanza, meno di cinque chilometri, un’altra base brigatista che ha avuto grande importanza durante il sequestro Moro: via Gabriello Chiabrera 76, alle spalle della basilica di San Paolo. Era il rifugio dei «postini» delle Br Valerio Morucci e Adriana Faranda. Da qui, la mattina del 16 marzo, Morucci e Franco Bonisoli uscirono per andare a sparare in via Fani contro gli uomini della scorta, mentre la Faranda rimase ad ascoltare i messaggi radio di polizia e carabinier­i. Qui, la sera dell’8 maggio, Moretti e compagni decisero le modalità d’azione della mattina seguente: l’esecuzione di Moro e il trasporto del cadavere nel centro di Roma, dove in via Caetani un brigatista aveva parcheggia­to la sua macchina per tenere il posto alla Renault 4 rossa.

Anche in via Chiabrera, dove in fondo alla strada c’era un bar frequentat­o dai banditi della Magliana, nessuno s’era accorto di nulla all’epoca; ma nessuno sa niente nemmeno adesso. Nell’appartamen­to al primo piano affittato dalle Br abitano tre studentess­e ignare di tutto. Che non mostrano alcuna curiosità per le Brigate rosse né per la storia di Aldo Moro. «Vabbè, ma noi che c’entriamo?», si schermisce quella che apre la porta. Pronta a richiuderl­a: «Arrivederc­i». La memoria può aspettare.

Anche in via Chiabrera, nessuno s’era accorto di nulla all’epoca; ma nessuno sa niente nemmeno adesso. Nei locali affittati dalle Br abitano tre studentess­e ignare. «Vabbè, ma noi che c’entriamo?»

Nuova insegna

Nella tipografia dove Moretti stampava i comunicati ora lavora un tappezzier­e

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