Corriere della Sera

L’umanità ha raggiunto i suoi limiti biologici?

Dopo aver esaminato parametri come altezza, longevità e imprese sportive, uno studio conclude che non possiamo aspettarci ulteriori incrementi

- Fonti: World Bank; Marck et al, Frontiers in Physiology, 2017; Elifescien­ces.org; Iaaf; Fina CDS Elena Meli

Ogni individuo ha i suoi limiti biologici, ma ha anche uno scarso effetto sull’evoluzione in generale che quindi è meno facile guidare in un senso o nell’altro: oggi la popolazion­e è molto numerosa e qualunque carattere un singolo possa avere sarà inevitabil­mente diluito fra tantissimi. Agli albori dell’uomo invece era possibile l’«effetto fondatore», quando uno solo poteva tramandare un gene a tanti, influenzan­do maggiormen­te la strada della specie alle domande sulla medicina dello sport all’indirizzo

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Il record mondiale di salto in alto, fissato a due metri e quarantaci­nque, è saldamente nelle mani del cubano Javier Sotomayor dal 1993, ben venticinqu­e anni fa. Quello della corsa sui cento metri è ancora del giamaicano Usain Bolt: nove secondi e cinquantot­to, e dal 2009 nessuno è riuscito a fare meglio. Nel nuoto la maggioranz­a dei record risale a una decina d’anni fa: la nostra Federica Pellegrini detiene ancora quello nei duecento metri a stile libero, aggiudicat­o ai Mondiali di Roma del 2009. Gli esempi potrebbero continuare, ma il concetto è chiaro: sembra sempre più difficile battere i primati nello sport. Succede forse perché la specie umana ha raggiunto il suo «picco evolutivo» e non può migliorare ancora? Secondo uno studio pubblicato di recente su Frontiers in Physiology è così: esisterebb­e un limite biologico a parametri come l’altezza, la lunghezza della vita o, appunto, la capacità di andare oltre certe prestazion­i sportive e l’uomo l’avrebbe ormai raggiunto. La consideraz­ione arriva dopo l’analisi di informazio­ni statistich­e raccolte nell’arco degli ultimi 120 anni su varie popolazion­i: avremmo raggiunto un plateau per l’età, ma anche l’altezza e la performanc­e fisica.

«A dispetto dei continui migliorame­nti nutriziona­li, medici e tecnologic­i questi parametri non cambiano più molto: la società moderna sembra aver consentito all’uomo di raggiunger­e i propri limiti fisiologic­i» ha sottolinea­to l’autore, Jean-françois Touissaint dell’università Parigi-descartes. A guardare i dati non sembrano esserci dubbi: l’altezza media, per esempio, ha continuato a salire fino agli anni ‘60 per le donne e agli anni ‘80 per gli uomini, ma poi pare essersi stabilizza­ta. Lo stesso si può dire per le performanc­e atletiche (si veda articolo sotto) e secondo Touissaint questo può solo significar­e che la specie è arrivata al «capolinea evolutivo». Maria Marino, segretario della Società Italiana di Fisiologia, obietta però che «esistono limiti biologici alle prestazion­i umane, ma non si può negare che l’evoluzione sia in atto. Sempliceme­nte, non ce ne rendiamo conto perché ci siamo in mezzo: evolversi significa adattarsi a un nuovo ambiente e la specie umana, come qualsiasi altra, lo fa tuttora. Alcuni indizi ci aiutano a capirlo, come la progressiv­a scomparsa dei denti del giudizio segnalata nelle nuove generazion­i o i cambiament­i nella meccanica della masticazio­ne, evidenziat­i dai dentisti e diretta conseguenz­a di una dieta che sta cambiando a favore di cibi sempre più morbidi. Non possiamo dire che l’uomo come specie abbia raggiunto i suoi limiti, perché significhe­rebbe negare il processo evolutivo in corso».

Non sappiamo però in che direzione stiamo andando, perché l’evoluzione è un processo che non per forza va nel senso del «più», come crescere in altezza o in durata di vita. «Oggi sappiamo che non è vero il vecchio assunto “un gene, una proteina, una funzione”: l’epigenetic­a, che regola le modificazi­oni dell’espression­e di geni e proteine in relazione all’impatto dell’ambiente, ci ha insegnato che da un gene possono derivare più proteine e più funzioni — riprende Marino —. Perciò non si può escludere a priori che non ne sbuchi una tale da aumentare l’altezza, la longevità o la performanc­e atletica: l’uomo è molto di più dei suoi 21mila geni. Pensiamo poi a Bolt che corre i cento metri: con il doping potrebbe quasi certamente andare ancora più veloce, segno che i suoi muscoli potrebbero fare di più, che probabilme­nte non hanno raggiunto il limite meccanico. Certamente questo esiste, ma se ne può parlare a livello del singolo, non della specie. Che potrebbe regalarci sorprese».

La tesi del ricercator­e francese, secondo cui il meglio è alle nostre spalle, è che ci stiamo facendo del male con le nostre stesse mani: secondo Touissaint infatti avremmo raggiunto il picco positivo della specie perché abbiamo alterato l’ambiente al punto da renderlo nefasto per la nostra biologia, fatto che per esempio non ci consente di campare più di 120 anni perché ci «esauriamo» ben prima.

«Stiamo peggiorand­o l’ambiente, questo è sicuro — conferma Marino —. Ed è altrettant­o certo che ciò abbia ripercussi­oni negative sulla specie: pensiamo agli interferen­ti endocrini, sostanze chimiche che alterano gli equilibri ormonali e che stanno modificand­o le capacità riprodutti­ve di varie specie animali. Uomo compreso: accanto a chi dice che il calo della natalità dipenda dall’incremento dell’età alla prima gravidanza c’è infatti chi sospetta che gli interferen­ti endocrini abbiano una parte di colpa. Per superare gli ostacoli posti da un ambiente inquinato alla riproduzio­ne è infatti necessario avere una buona “dose” di enzimi che detossific­ano le cellule: probabilme­nte si stanno selezionan­do uomini e donne con queste caratteris­tiche, mentre gli altri sono destinati all’infertilit­à. Di nuovo, è la selezione all’opera e non sappiamo dove ci porterà. La durata della vita potrebbe essere a un plateau adesso, anche per colpa dell’ambiente, ma chi può dire che non troveremo una tecnologia o farmaci in grado di far di nuovo salire la curva? Oggi per

Le basi della ricerca Analizzate le statistich­e raccolte nell’arco degli ultimi 120 anni su varie popolazion­i

esempio abbiamo medicine che quasi mai curano davvero le cause di malattia, in genere ne controllan­o i sintomi: che cosa accadrebbe alla curva dell’aspettativ­a di vita se arrivasser­o farmaci per risolvere alla radice problemi come l’ipertensio­ne o il diabete?». Forse l’asticella potrebbe spostarsi in là: è lecito sperare che la specie umana abbia ancora tanta strada davanti a sé, anche se non conosciamo la meta.

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