Corriere della Sera

Il voto del Sud è una ribellione da non leggere con superficia­lità

- di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin

L’Italia che traspare dal voto del 4 marzo è spaccata in due: Nord e Sud. Nella storia del nostro Paese una divisione così netta nelle preferenze politiche non si vedeva dai tempi del referendum sulla monarchia. Il voto al Sud è stato attribuito alla domanda di assistenzi­alismo e alla chiusura della società meridional­e tipicament­e avversa al cambiament­o e alla globalizza­zione. Si è anche detto che l’esito elettorale del nostro Mezzogiorn­o è simile a quello di altri Paesi europei dove la crisi ha minato la fiducia nei partiti tradiziona­li e premiato i partiti «antisistem­a».

Studi recenti hanno dimostrato che questa sfiducia è presente quando c’è un visibile peggiorame­nto delle condizioni economiche. Ciò che sembra contare infatti è il cambiament­o di Pil e disoccupaz­ione, più che il loro livello. Effettivam­ente il voto nel nostro mezzogiorn­o sembra confermare questo dato: la crisi è arrivata dopo rispetto al resto del Paese e ha prodotto tassi di disoccupaz­ione che sfiorano il 20 percento e in alcune regioni il 60 per quella giovanile.

Ma queste similitudi­ni non raccontano tutta la storia. Il caso del Sud d’italia ha specificit­à proprie. Per esempio, mentre nel resto dell’europa l’effetto del calo di fiducia nei partiti tradiziona­li porta anche a una alta percentual­e di astensioni­smo che mitiga il successo dei partiti antisistem­a, nel nostro Mezzogiorn­o l’affluenza è rimasta stabile, in controtend­enza con il resto del Paese, premiando il partito antisistem­a con un voto trasversal­e che coinvolge tutti i settori della società e che quindi manda un messaggio forte, diremo quasi di rivolta.

Questo tsunami si può solo capire se si prende atto del fallimento delle politiche per il Sud portate avanti sia dalle élite locali che dai partiti nazionali. I meccanismi di distribuzi­one della spesa pubblica che passano attraverso la politica locale si sono prosciugat­i nel tempo erodendo l’aspetto clientelar­e del voto nel Mezzogiorn­o. Se prima la macchina politica e le élite locali potevano attingere con disinvoltu­ra a una cassa per distribuir­e prebende e posti di lavoro, negli anni recenti vincoli e procedure di spesa (ad esempio quelli che passano dalla comunità europea) hanno ristretto la platea dei benificiar­i del sistema clientelar­e ma non si è costruito un piano B che potesse mobilitare le forze più dinamiche di queste regioni. La crisi ha fatto il resto.

Tutto ciò è avvenuto mentre, a livello nazionale, si sono rafforzate le misure di protezione a favore delle fasce più deboli. Pensiamo, per esempio, al reddito di inclusione ma anche al bonus degli 80 euro. Queste politiche sostengono il reddito in modo diffuso e centralizz­ato e tolgono quindi potere di spesa alle élite locali. Paradossal­mente però, i partiti tradiziona­li che le hanno promosse adottando sistemi di welfare più evoluti — in questo caso il Partito democratic­o —, non ne traggono un beneficio elettorale. La ragione è che essi non sono in grado di trasmetter­ne le ragioni perché la loro struttura organizzat­iva si è praticamen­te dissolta ed è assente nel territorio. La mancanza di una presenza capillare, di un rapporto con i cittadini, che era stata la loro forza nella Prima Repubblica, li rende oggi incapaci di comunicare un messaggio quando c’è e di elaborarne uno nuovo convincent­e. Nella campagna elettorale di tutti i partiti è stata assente un’idea coerente su come risollevar­e le sorti di un’area del Paese che ha subito in modo drammatico gli effetti della crisi e che rischia di accentuare la sua divergenza con il Nord.

In questo vuoto si è scelto spesso quindi la strategia di candidare notabili locali, i «mister preferenze» perdendo così ogni legittimit­à. Ma questo non funziona più. Per via di questa mancanza di legittimit­à agli occhi degli elettori, i «mister preferenze», mentre sono stati in grado di «portare» voti nelle elezioni locali — ad esempio nelle elezioni regionali in Sicilia di pochi mesi fa —, hanno fallito in un contesto di elezione nazionale.

La società meridional­e ha risposto con un messaggio forte. Logorata da un tasso di mobilità intergener­azionale estremamen­te basso, si è ribellata alle dinastie nelle posizioni chiave nelle istituzion­i (università, profession­i, sanità, politica). Quelle dinastie che hanno mal speso o non speso i fondi europei della coesione territoria­le e che difendono da sempre privilegi acquisiti.

In questo contesto il M5S è l’unico partito che ha fatto uno sforzo di inclusione e selezionat­o i suoi rappresent­anti (con metodi certamente discutibil­i) pescando in tutta la società. Questo ha trovato ascolto proprio perché l’ascensore sociale in questa parte del Paese funziona male con la conseguenz­a che la competenza dei candidati o la incoerenza delle politiche proposte dal M5S con i vincoli di bilancio diventano fattori secondari rispetto al valore simbolico che ha l’aprire le liste a chi è estraneo alle élite.

Rattrista vedere come il voto sia stato letto quasi ovunque in modo semplifica­to, come domanda di assistenzi­alismo o paura di cambiament­o. Non semplifich­iamo. La domanda di assistenzi­alismo nel Sud c’è sempre stata e sicurament­e c’è ancora oggi, ma la società meridional­e il 4 marzo ha detto qualcosa di più. Abbandonan­do i partiti tradiziona­li incapaci di rispondere ai suoi bisogni, ha espresso piuttosto una disponibil­ità a sperimenta­re qualcosa che non si conosce e che potrebbe essere migliore dello status quo. Il contrario di una avversione al rischio. Difficile non nutrire seri dubbi sulla capacità dei vincitori di rispondere a questa aspettativ­a, ma questa ribellione nell’arena politica nel mezzogiorn­o non si vedeva da tempo. Il messaggio va accolto e non banalizzat­o.

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