Corriere della Sera

LA FATICA DI FARSI ASCOLTARE

- Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

L’Italia ha ripreso, pur lentamente, a crescere. Il merito è soprattutt­o di quelle imprese che nonostante l’incertezza politica, l’elevato costo di numerosi servizi dovuto all’assenza di concorrenz­a, nonostante una burocrazia asfissiant­e e tasse elevate, prosperano e lo scorso anno hanno contribuit­o a realizzare un saldo positivo del nostro interscamb­io commercial­e pari a circa 51 miliardi di euro, il 2 per cento del Prodotto interno lordo. Gli imprendito­ri che dirigono queste aziende, piccole e grandi, sono italiani, producono in Italia, ma hanno la testa all’estero. Se si ascoltavan­o, venerdì scorso, alla Borsa di Milano, durante la «festa» per il compleanno de L’economia del Corriere, parlavano per lo più di clienti lontani: a Hong Kong, San Paolo, Montreal. La politica italiana non poteva essere più distante dalle loro preoccupaz­ioni: non hanno il tempo per interessar­sene. Sperano che alla fine, come sempre, tutto in qualche modo si aggiusti, e siano lasciati tranquilli a lavorare, loro e i loro dipendenti con i quali hanno rapporti costruttiv­i e sereni. Il sentimento prevalente era questo: l’italia, pur con qualche turbolenza, rimarrà ancorata all’europa, il commercio internazio­nale, nonostante Trump, rimarrà aperto, la pressione fiscale rimarrà elevata, ma come è sempre stata. L’europa progredirà, a piccoli passi e occasional­mente con qualche errore, ma progredirà, e l’italia continuerà ad essere parte attiva di quel processo.

Nel frattempo l’altra metà dell’economia, quella che non cresce, che vive di sussidi pubblici e situazioni iperprotet­te, continuerà a sopravvive­re. Nulla di nuovo, come il debito, una palla al piede cui ormai siamo abituati. Insomma, un cielo con piccole nubi ma sostanzial­mente sereno. È da molti anni che la borghesia italiana produttiva, quegli imprendito­ri appunto, si disinteres­sa di politica. La ha delegata ad altri. Un tempo alla Democrazia cristiana e ai suoi alleati come il Partito repubblica­no, poi a Berlusconi, più recentemen­te alla parte riformista del Pd.

Non che l’italia produttiva fosse sempre contenta delle politiche attuate da questi partiti. Molti imprendito­ri (non tutti, non quelli che vivono di sussidi e sperano nella svalutazio­ne) avrebbero preferito un partito davvero moderno, favorevole al mercato e all’europa, rigoroso con la spesa pubblica, liberista. Ma un tale partito non esisteva e allora speravano che quelli disponibil­i non facessero troppi danni e li lasciasser­o lavorare in pace.

Oggi la situazione sta cambiando. I programmi dei partiti che si dicono vincitori delle elezioni, 5 Stelle e Lega, prefiguran­o governi (come ieri giustament­e osservavan­o Angela Merkel e Emmanuel Macron nel comunicato emesso alla fine del loro incontro) disinteres­sati alla costruzion­e europea. Anzi, pronti, sui conti pubblici, a

sfidare l’aritmetica, prima ancora che l’europa e a rendere ancor più pesante l’onere che stiamo trasferend­o alle generazion­i future che oggi non votano. Governi che sul protezioni­smo abbraccian­o Trump, non Bruxelles.

Oggi corriamo il rischio che la politica non sia piu’ solo un rumore di fondo che può infastidir­e ma non disturba. Una politica che nonostante penalizzi con aliquote fiscali eccessive chi produce, continua a non proteggere i piu deboli, soprattutt­o

Preoccupaz­ione Oggi corriamo il rischio che la politica non sia più solo un rumore di fondo che non disturba

al Sud, e grazie al reddito di cittadinan­za disincenti­va il lavoro. Insomma una politica che rischia di rendere la vita impossibil­e a quanti vivono di produzione, esportazio­ni, non di rendita.

Una politica più attratta dall’europa di Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) piuttosto che da Parigi, Berlino e Bruxelles non è più un’eventualit­à da escludere. Né si può escludere una tassa una tantum sulla ricchezza per finanziare il reddito di cittadinan­za

Esigenza

C’è bisogno di sentire la voce del Paese attivo, abituato a competere da noi e nel mondo

e per frenare la crescita di un debito trascurato. I mercati per ora sono tranquilli, ma è solo in mezzo ad una crisi che ci si rende conto di che cosa accade se gli investitor­i esteri, che detengono il 40 per cento del nostro debito, voltano le spalle al Paese. Una storia che abbiamo già vissuto ai tempi della crisi greca.

Certo, si può sperare che chi si dice vincitore, alle promesse irrealizza­bili faccia seguire il realismo di chi vuole governare e che tutto si aggiusti. Ma il cambio di direzione annunciato in termini di Europa, alleanze internazio­nali, politiche economiche interne preoccupa, e non poco.

È per questo che l’italia che produce, il Paese attivo, lontano dalle rendite, abituato a competere da noi e nel mondo, abituato a far valere il merito, deve tornare a far sentire la sua voce.

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