Corriere della Sera

ITALIANI

«Stilisti, moralisti La Milano da bere che ho vissuto»

- di Pier Luigi Vercesi

P aolo Pillitteri, socialista, sindaco di Milano dal 1986 al 1992, marito di Rosilde Craxi: «I milanesi sempre stati affettuosi con me. Anche ora».

Paolo Pillitteri, le tirano ancora le monetine quando passa per strada?

«Quando mai? I milanesi sono sempre stati affettuosi con me. C’è stato un periodo che non avevo la macchina e andavo in centro a piedi. La gente diceva: “Piliteri, vegn chi a bev el cafè!”. Anche adesso mi fermano per strada: “Lei è mica il nostro sindaco?”. Io rispondo: sì, e sono interista». Vuol farmi credere che c’è nostalgia della Milano da bere?

«Quando c’era la pubblicità del Campari la trovavano tutti bella. Anche i comunisti. La storia della Milano da bere corrotta l’hanno inventata dopo». Negli anni Ottanta, però, arrivarono i nani e le ballerine...

«Muchela lì, ma in che film? Milano era la città della Scala, di Giorgio Strehler. La politica è finita quando si è cominciato ad aggredire gli avversari con gli slogan. Se quello là aveva l’amante, pensa che poi siano arrivati i chierichet­ti e i mariti fedeli? Si stava sempliceme­nte passando dal comunismo al luogo-comunismo. Io ho fatto il sindaco dal 1986 al gennaio del ’92. Carlo Tognoli, prima di me, aveva fatto un lavoro magnifico. E siccome mi ritengo fortunato, a me è andata ancora meglio. La città balzò all’onore delle cronache internazio­nali perché vennero in visita Gorbaciov e poi Eltsin. Me la vedo ancora la folla in Galleria, i milanesi orgogliosi di essere al centro del mondo. E l’esplosione della moda? Lo sa com’è avvenuta? Un giorno, passeggian­do in via Manzoni, alzo gli occhi e vedo Giorgio Armani in calzini che trafficava nella sua vetrina; picchio sul vetro e lui mi fa segno di entrare; cos’è, fai anche il vetrinista adesso?; lui: “Se non hai cura tu delle tue cose, chi deve averla?”. Ecco, il segreto di Milano è lì. Quando arrivai a Palazzo Marino, dopo un po’ feci la giunta con il Pci: i migliorist­i li sentivo vicini. Bettino lasciava fare. A volte aggrottava il sopraccigl­io, ma non parlava e io facevo finta di non capire se era a favore o contrario».

Quindi la Milano da bere l’avete allestita con i comunisti?

«Erano in giunta! Il Pci si è messo a fare il moralista dopo. Come nei film, c’è stato il primo tempo e il secondo. Nel primo tutti partecipav­ano alla Milano da bere; nel secondo la Milano da bere diventava una vergogna».

Anche Mario Chiesa si sono inventati?

«Fu preso con le mani nel sacco. È una cosa diversa, non c’entra Milano. Io ero suo amico e sono rimasto di stucco. Poi è arrivata la valanga...».

La storia della caduta del Muro di Berlino, dello sfaldament­o degli equilibri internazio­nali...

«Balle: è il caso. Certo, era il momento che sui partiti piovevano critiche. Bettino non l’ha capito. E non ha capito che il bersaglio principale era lui. Era l’anello più debole, si accorsero che arrancava e ci diedero dentro. A me piovvero in testa quattro o cinque processi. Uno chiamava l’altro e mi sono fatto un anno di servizi sociali da don Mazzi. Di Pietro lo conoscevo bene. Andavo a casa sua. Poi tutto è cambiato improvvisa­mente. Cosa doveva fare? Tonino ha cavalcato la sua ora e alla fine ha distrutto una Repubblica. Bettino intanto continuava a non crederci e la spallata definitiva ce la diedero il Pci, i loro amici e i poteri forti».

Quali poteri forti?

«Gli Agnelli, i De Benedetti, i Pirelli, quelli lì. Per salvarsi. Appena furono lambiti, fecero di tutto per sviare l’attenzione».

Lei li frequentav­a, per saperla così lunga?

«Certo. A Milano la figura del sindaco è eminente: ci sono il cardinale, il sindaco e basta. Se Romiti doveva parlare di una cosa importante andava dal sindaco. Romiti è un genio, cattivissi­mo nei giudizi. Lo portavo a passeggiar­e nei saloni di Palazzo Marino così si lasciava andare. Adesso deve riferire tutto al suo superiore, lo provocavo. Lui mi fissava: “Lo chiama superiore? Le cose le ha ereditate. Io e lei siamo mica qui per eredità!”».

Così mi alza la palla: non era lì per eredità ma perché era il cognato di Craxi!

«Lo ero da una vita. Prima era facile fare il cognato: contava niente. Dopo il Midas, quando divenne segretario del Psi, io avevo già una lunga esperienza politica, prima nel Psdi, con cui me ne andai quando ci fu la scissione, poi come assessore nel Psi. Fuori non me lo facevano pesare. Dentro al partito sì».

Romiti a Palazzo Marino È un genio e cattivissi­mo nei giudizi. Mi diceva: «Il mio superiore? Le cose lui le ha ereditate. Invece io e lei non siamo mica qui per eredità...»

I favori e gli appalti È storia, sì... c’era una devozione al partito che si traduceva anche in forme di partecipaz­ione Poi però arrivarono persone che la passione per il Psi l’avevano meno

Ha conosciuto prima Bettino o la sorella Rosilde, diventata sua moglie?

«Rosilde. Eravamo in coda insieme per iscriverci all’università. Io Lettere, lei Giurisprud­enza. Abbiamo cominciato a frequentar­ci con un po’ di tiremolla perché io avevo in testa il cinema. Mio papà, un maresciall­o maggiore dei carabinier­i siciliano andato a combattere con i partigiani in Valtellina, mi aveva regalato una sedici millimetri. Mi ero iscritto alla scuola di cinema, mi occupavo del Centro cinematogr­afico universita­rio e cominciai a girare dei documentar­i. Bettino l’incontrai quando era assessore all’economato. Un fornitore del Comune mi disse che voleva girare un documentar­io per far vedere che dava le merendine ai bambini nelle scuole. Mi precipitai e girai un filmato, che scontentò Craxi: gli avevo dedicato pochi secondi. Comunque sia, quando mi accorsi che trovare i produttori era impossibil­e, cercai di fare il critico cinematogr­afico. Fidia Sassano, un bravo giornalist­a dell’avanti!, mi disse che se ne stava andando il loro critico, così m’infilai».

Grazie a Bettino!

«A Bettino non gliene fregava niente né del cinema né dell’avanti!. Per di più, nel 1969 me ne andai con i socialdemo­cratici. Mi aiutò Renato Massari, un leader del Psdi. «Paolo — mi disse —, scadono le presidenze degli enti, una culturale la prendi tu». Mi propose la Triennale. Sei sicuro?, gli dissi. Capii dopo perché non me l’aveva contesa nessuno. C’era stato il ’68 e dopo un anno di occupazion­e era stata rasa al suolo. Renato, hanno spianato tutto! “Non importa, parliamo con Mariano Rumor” (presidente del Consiglio, ndr). Così mi spedirono a Palazzo Chigi con un tal Tonino Colombo, uno alto-alto, amico di un sottosegre­tario. Rumor ci venne incontro e si diresse verso il mio accompagna­tore: “Carissimo presidente”, e lo abbracciò. Veramente sarei io quello della Triennale... “Ah sì, certo caro amico”. Rumor pagò i danni della Triennale e Massari mi candidò al Comune. Eletto, Renato chiese un assessorat­o per me. L’ultimo rimasto era quello alle Istituzion­i culturali, al nulla, in pratica. Sindaco era Aldo Aniasi. Gli chiesi: dove mi metto? “Ci dev’essere un posto dalle parti della Guastalla. Già che ci sei, perché non aggiungi anche il turismo? Suona bene: assessore alla Cultura e al Turismo”. Io m’intendo di cinema — feci notare —, mettiamoci anche lo Spettacolo. “Perfetto”, concluse Aldo».

Craxi cercò mai di riportarla nel Psi?

«A un certo punto non mi trovavo bene nel Psdi e decisi di rientrare nel Psi. Nel frattempo c’era stato il Midas e Bettino era diventato segretario perché tutti pensavano: “Dura minga, dura no”. Invece era una spanna sopra gli altri. Il partito era allo sfascio perché non aveva una politica. Bettino puntò su un gruppo di giovani: Tognoli, io, Martelli, Gangi, Manzi, Ripa di Meana. Non era un solitario: decideva da solo, però ci sentiva spesso. Il lunedì ci vedevamo al Toulà o alla Cassina de’ pomm. Lui prendeva la matita e cominciava a tirare delle righe: “Forlani fa questo, bisogna vedere se Lama preme e come reagiscono i berlinguer­iani”, c’erano persino i liberali, Biondi... poi si rivolgeva a me... “e il tuo Saragat?”. Ma Bettino, sarà anche morto. Per dire che non lasciava nulla al caso».

Quando cominciast­e a procurare soldi per il partito?

«Quando arrivò Bettino il Psi non aveva più un centesimo in cassa. C’erano da pagare gli stipendi dei funzionari e gli affitti delle federazion­i. Chiese a chi aveva incarichi pubblici di contribuir­e. Poi c’erano i versamenti dei privati, come hanno sempre avuto tutti i partiti».

E dovevate rende favori con gli appalti...

«È storia, sì, però diciamo che c’era una sostanzial­e devozione al partito che si traduceva anche in forme di partecipaz­ione. Quando il Psi cominciò a crescere arrivarono quelli che la passione per il Psi l’avevano meno».

Sta parlando anche di Silvio Berlusconi?

«Su Berlusconi bisogna capirsi. Quando decise di fare una Rai privata aveva già costruito interi quartieri, aveva dato case e lavoro. A Milano queste cose pesano. Ovvio che era un buon cavallo su cui puntare. C’era sotto un ragionamen­to di politico».

Come è stato vissuto in famiglia il dramma di Craxi?

«Rosilde non si è mai interessat­a granché alla carriera del fratello e non era particolar­mente attratta nemmeno dalla mia. Insegnava alle scuole medie, tirava su i figli e doveva accudire il padre Vittorio. Quando rimase vedovo, venne a vivere con noi. Ogni tanto arrivava Antonio, l’altro fratello Craxi che faceva l’imprendito­re, si era preso un’imbarcata per Sai Baba, era andato in India e... ci credeva, contento lui. Bettino veniva da noi a Natale. Se Antonio attaccava il discorso del santone, diceva: “Sì, ne parliamo il prossimo Natale”. Vittorio, che era stato prefetto di Como e viceprefet­to di Milano, morì nel ’92, ma fece in tempo a vedere che le cose si mettevano male. Stava comunque con Bettino. Chissà se intuì che avrebbe pagato per tutti...».

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(Fotogramma) La politica Paolo Pillitteri, 77 anni, ha iniziato la sua carriera giornalist­ica come critico cinematogr­afico dell’avanti Inizia l’attività politica negli anni Sessanta con il Partito socialista italiano (Psi); poi passa allo Psdi con cui è nominato...
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In bicicletta L’allora sindaco Paolo Pillitteri negli anni Ottanta a Milano

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