Corriere della Sera

LE COALIZIONI «ATIPICHE» ESISTONO ANCHE IN EUROPA

Prospettiv­e La formazione di una nuova maggioranz­a di governo è resa difficile dagli effetti della legge elettorale e dalle tensioni provocate nel Pd dalla sconfitta

- di Stefano Passigli

Momento

La democrazia dell’alternanza è un ricordo più che una attuale possibilit­à

Svolta

La soluzione potrebbe essere un sostegno esterno della sinistra o una «non sfiducia»

La formazione di una maggioranz­a di governo è resa difficile dal sommarsi di due fattori: gli effetti di una legge elettorale di cui avevamo sin dall’inizio previsto (Corriere della Sera, 25 settembre 2017) che avrebbe aggravato anziché superare le difficoltà insite nell’asseto tripolare del nostro sistema partitico, impedendo di individuar­e un chiaro vincitore, e le tensioni determinat­e nel Pd — paradossal­e proponente dell’errata legge elettorale — dalla sconfitta alle urne.

Il fatto che nessuno dei tre schieramen­ti abbia riportato la maggioranz­a dei seggi non significa tuttavia che il problema della formazione di un governo non possa trovare soluzione. Le combinazio­ni teoricamen­te possibili (M5S-LEGA-FDI; M5S-PD-LEU; Pd-centrodest­ra) si scontrano però con la realtà delle posizioni programmat­iche dei vari partiti: una maggioranz­a numerica non è infatti una maggioranz­a politica. I risultati elettorali hanno reso impossibil­e quella «grande coalizione» Pd-forza Italia) che aveva ispirato l’adozione del Rosatellum. E un accordo tra i due reali vincitori della competizio­ne elettorale, M5S e Lega, si scontra con la natura composita e l’insediamen­to territoria­le del primo che — malgrado alcune indubbie convergenz­e programmat­iche — non consentire­bbero una alleanza organica con il secondo, anche prescinden­do dalla non irrilevant­e questione di chi ne avrebbe la leadership.

Nelle condizioni determinat­e dai risultati elettorali tanto vale ammettere subito che nessun governo di legislatur­a sarà possibile, ma solo un governo di scopo che oltre a garantire una continuità di rapporti con la Unione Europea metta mano ad una riforma dell’attuale legge elettorale. Anche la formazione di un governo di scopo è tuttavia resa difficile dalla posizione che viene assumendo il Pd come conseguenz­a del travaglio interno seguito alla sconfitta del gruppo dirigente renziano. Se

si esclude che Centrodest­ra e M5S possano trovare un accordo, che più che ad una grande coalizione di stampo europeo darebbe vita ad un vero e proprio inedito «monstrum» politico, un governo di scopo può infatti nascere solo dall’apporto del Pd ad uno dei due altri schieramen­ti.

In tutta Europa non mancano esempi di coalizioni che un tempo avremmo considerat­o atipiche: anche al di là del caso tedesco, ove la coalizione tra socialisti e democristi­ani si avvia ormai ad essere quasi un dato struttural­e di quel sistema politico, i precedenti in Inghilterr­a, Olanda ed Austria, e più recentemen­te il caso spagnolo, ove l’im- possibilit­à di dar vita ad un governo diverso e la crisi catalana hanno cementato l’alleanza tra partiti sino ad allora rivali, mostrano che la democrazia dell’alternanza è — almeno al momento — un ricordo più che una attuale possibilit­à. Si consideri inoltre che proprio l’esperienza italiana può offrire una utile indicazion­e per superare l’odierno impasse: come non ricordare che nel 1976, dopo una lunga trattativa, il governo Andreotti, privo di una maggioranz­a parlamenta­re, nacque grazie alla benevola astensione del Pci di Berlinguer? La fantasia terminolog­ica della Prima repubblica battezzò quel governo come frutto

di una «non sfiducia».

Nella sostanza, al riparo della teoria della «centralità del Parlamento», il governo operò grazie ad un continuo confronto con il Pci che conservava in Parlamento il potere di approvare o far cadere i suoi singoli provvedime­nti. Non si vede perché una simile via di uscita dai risultati prodotti da una infausta legge elettorale non possa essere seguita oggi dal Pd che tale legge ha proposto e di cui è dunque il principale responsabi­le. Né si dica che una simile posizione contraddir­ebbe la natura stessa del Pd; in tutte le situazioni di emergenza il maggiore partito della sinistra italiana — fosse questo il Pci o i suoi eredi — ha infatti sempre mostrato un grande senso di responsabi­lità, facendosi carico di soluzioni nell’interesse del Paese anche al prezzo di sacrificar­e le proprie più immediate prospettiv­e: dalla svolta di Salerno che aprì la via ai governi di unità nazionale espression­e dei partiti del Cln, ad appunto il ricorso alla «non sfiducia» nei confronti del governo che doveva affrontare l’emergenza del terrorismo, al via libera a governi «tecnici» anziché insistere per un ricorso alle urne. Si può oggi obiettare che l’italia non si trovi in una situazione di emergenza? Crescenti diseguagli­anze economiche e povertà; disoccupaz­ione giovanile particolar­mente penalizzan­te il Sud e le donne; terzo debito pubblico del mondo e conseguent­e aggravio del deficit in caso di aumento dei tassi di interesse; un fenomeno migratorio che oltre a costituire un notevole peso per le finanze e le strutture amministra­tive del nostro Stato sta modificand­o la natura del nostro sistema politico e i valori di larga parte dei nostri cittadini; un sistema educativo che non garantisce più il cosiddetto «ascensore sociale», e nemmeno la formazione dei quadri di cui abbiamo crescente bisogno; e chi più ne ha più ne metta.

Può davvero quel che resta della sinistra italiana permetters­i di abbandonar­si alle proprie tensioni interne e non ritrovare invece in un sostegno esterno, o almeno in una «non sfiducia» ad un governo di quello tra i vincitori ad essa meno lontano, un rapporto con quello che fu il suo popolo? Sarebbe molto grave se la logica di partito, o peggio l’interesse di un ristretto gruppo all’interno della sua dirigenza, prevalesse sugli interessi del Paese.

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