LE COALIZIONI «ATIPICHE» ESISTONO ANCHE IN EUROPA
Prospettive La formazione di una nuova maggioranza di governo è resa difficile dagli effetti della legge elettorale e dalle tensioni provocate nel Pd dalla sconfitta
Momento
La democrazia dell’alternanza è un ricordo più che una attuale possibilità
Svolta
La soluzione potrebbe essere un sostegno esterno della sinistra o una «non sfiducia»
La formazione di una maggioranza di governo è resa difficile dal sommarsi di due fattori: gli effetti di una legge elettorale di cui avevamo sin dall’inizio previsto (Corriere della Sera, 25 settembre 2017) che avrebbe aggravato anziché superare le difficoltà insite nell’asseto tripolare del nostro sistema partitico, impedendo di individuare un chiaro vincitore, e le tensioni determinate nel Pd — paradossale proponente dell’errata legge elettorale — dalla sconfitta alle urne.
Il fatto che nessuno dei tre schieramenti abbia riportato la maggioranza dei seggi non significa tuttavia che il problema della formazione di un governo non possa trovare soluzione. Le combinazioni teoricamente possibili (M5S-LEGA-FDI; M5S-PD-LEU; Pd-centrodestra) si scontrano però con la realtà delle posizioni programmatiche dei vari partiti: una maggioranza numerica non è infatti una maggioranza politica. I risultati elettorali hanno reso impossibile quella «grande coalizione» Pd-forza Italia) che aveva ispirato l’adozione del Rosatellum. E un accordo tra i due reali vincitori della competizione elettorale, M5S e Lega, si scontra con la natura composita e l’insediamento territoriale del primo che — malgrado alcune indubbie convergenze programmatiche — non consentirebbero una alleanza organica con il secondo, anche prescindendo dalla non irrilevante questione di chi ne avrebbe la leadership.
Nelle condizioni determinate dai risultati elettorali tanto vale ammettere subito che nessun governo di legislatura sarà possibile, ma solo un governo di scopo che oltre a garantire una continuità di rapporti con la Unione Europea metta mano ad una riforma dell’attuale legge elettorale. Anche la formazione di un governo di scopo è tuttavia resa difficile dalla posizione che viene assumendo il Pd come conseguenza del travaglio interno seguito alla sconfitta del gruppo dirigente renziano. Se
si esclude che Centrodestra e M5S possano trovare un accordo, che più che ad una grande coalizione di stampo europeo darebbe vita ad un vero e proprio inedito «monstrum» politico, un governo di scopo può infatti nascere solo dall’apporto del Pd ad uno dei due altri schieramenti.
In tutta Europa non mancano esempi di coalizioni che un tempo avremmo considerato atipiche: anche al di là del caso tedesco, ove la coalizione tra socialisti e democristiani si avvia ormai ad essere quasi un dato strutturale di quel sistema politico, i precedenti in Inghilterra, Olanda ed Austria, e più recentemente il caso spagnolo, ove l’im- possibilità di dar vita ad un governo diverso e la crisi catalana hanno cementato l’alleanza tra partiti sino ad allora rivali, mostrano che la democrazia dell’alternanza è — almeno al momento — un ricordo più che una attuale possibilità. Si consideri inoltre che proprio l’esperienza italiana può offrire una utile indicazione per superare l’odierno impasse: come non ricordare che nel 1976, dopo una lunga trattativa, il governo Andreotti, privo di una maggioranza parlamentare, nacque grazie alla benevola astensione del Pci di Berlinguer? La fantasia terminologica della Prima repubblica battezzò quel governo come frutto
di una «non sfiducia».
Nella sostanza, al riparo della teoria della «centralità del Parlamento», il governo operò grazie ad un continuo confronto con il Pci che conservava in Parlamento il potere di approvare o far cadere i suoi singoli provvedimenti. Non si vede perché una simile via di uscita dai risultati prodotti da una infausta legge elettorale non possa essere seguita oggi dal Pd che tale legge ha proposto e di cui è dunque il principale responsabile. Né si dica che una simile posizione contraddirebbe la natura stessa del Pd; in tutte le situazioni di emergenza il maggiore partito della sinistra italiana — fosse questo il Pci o i suoi eredi — ha infatti sempre mostrato un grande senso di responsabilità, facendosi carico di soluzioni nell’interesse del Paese anche al prezzo di sacrificare le proprie più immediate prospettive: dalla svolta di Salerno che aprì la via ai governi di unità nazionale espressione dei partiti del Cln, ad appunto il ricorso alla «non sfiducia» nei confronti del governo che doveva affrontare l’emergenza del terrorismo, al via libera a governi «tecnici» anziché insistere per un ricorso alle urne. Si può oggi obiettare che l’italia non si trovi in una situazione di emergenza? Crescenti diseguaglianze economiche e povertà; disoccupazione giovanile particolarmente penalizzante il Sud e le donne; terzo debito pubblico del mondo e conseguente aggravio del deficit in caso di aumento dei tassi di interesse; un fenomeno migratorio che oltre a costituire un notevole peso per le finanze e le strutture amministrative del nostro Stato sta modificando la natura del nostro sistema politico e i valori di larga parte dei nostri cittadini; un sistema educativo che non garantisce più il cosiddetto «ascensore sociale», e nemmeno la formazione dei quadri di cui abbiamo crescente bisogno; e chi più ne ha più ne metta.
Può davvero quel che resta della sinistra italiana permettersi di abbandonarsi alle proprie tensioni interne e non ritrovare invece in un sostegno esterno, o almeno in una «non sfiducia» ad un governo di quello tra i vincitori ad essa meno lontano, un rapporto con quello che fu il suo popolo? Sarebbe molto grave se la logica di partito, o peggio l’interesse di un ristretto gruppo all’interno della sua dirigenza, prevalesse sugli interessi del Paese.