La Ue prova a far pagare la web tax ai big Ma il duello digitale è tra Usa e Cina
Si alza il velo sui piani di Bruxelles mentre Pechino si rafforza tra intelligenza artificiale e dati
L’europa e gli Stati Uniti si graffiano. E la Cina pedala. Bruxelles sta per presentare una riforma della tassazione di Facebook, Alphabet, Apple e di altre imprese digitali — si parla di un 3 per cento sui ricavi, e non sui profitti (la percentuale potrebbe variare in una forchetta compresa fra l’1 e il 5 per cento) — che porterebbe nelle casse comunitarie 4,8 miliardi di euro. Se si sale al 5 per cento diventano 7,8 miliardi.
«Non sono misure antiamericane. Non è protezionismo. È corretta tassazione», ha tenuto a chiarire al Wall Street Journal il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici. La cosiddetta digital tax coinvolgerà un centinaio di aziende e verrà presentata mercoledì 21 marzo. Il tema è anche in cima alla lista delle priorità del G20, che inizia domani a Buenos Aires, in Argentina, con, sul tavolo, le (non) conclusioni dell’ocse su una linea comune fra i diversi Paesi del mondo. E dagli Usa dei dazi sull’acciaio e l’alluminio arriva il monito del segretario al Tesoro Steve Mnuchin: «Danneggerebbe crescita, lavoratori e consumatori».
Intanto, come detto, Pechino pedala. La metafora ciclistica non è casuale: l’applicazione di bike sharing Ofo è un piccolo ma eclatante esempio del crescente dominio del Paese asiatico nel mercato digitale. Attiva in 20 Paesi, Italia compresa, negli ultimi nove mesi è stata foraggiata da più di due miliardi di dollari.
Tra i suoi investitori c’è Alibaba, il gigante a cui Donald Trump, al netto dei grandi sorrisi al fondatore Jack Ma, ha chiuso la porta in faccia quando ha tentato di acquistare la società di trasferimenti di denaro Moneygram attraverso la controllata Ant Financial Service per 1,2 miliardi di dollari.
Mentre l’altro colosso digitale cinese, Tencent, sbocconcella qua là acquistando azioni di Snap o investendo in Spotify e pedala sulla rivale di Ofo, Mobike, il presidente Usa ha appena messo il veto anche alla super acquisizione ostile da 142 miliardi di Qualcomm da parte di Broadcom, la rivale di Singapore. «È una questione di sicurezza nazionale», assicura Trump. «Il problema
c’è, ma la reazione è sbagliata: l’ascesa tecnologica della Cina richiede una risposta strategica, non istintiva», spiega invece l’economist.
Il tutto mentre un report presentato al Sxsw di Austin, Texas, parla chiaro: nel 2018 la Cina, forte dei suoi 770 milioni di utenti — oro in un momento in cui i dati sono il nuovo petrolio — getterà le basi per avere il controllo globale del mercato dell’intelligenza artificiale e dei settori collegati (riconoscimento facciale, assistenti digitali, ecc). Non ditelo all’ex presidente di Alphabet, Eric Schmidt, che pensava di avere tempo fino al 2025 prima di vedere Pechino superare gli Stati Uniti. E non dimentichiamo la guerra fredda della proprietà intellettuale fra i due Paesi.
«Quella tra Usa e Cina è la partita ed è soprattutto una partita geopolitica e di sicurezza», spiega Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente dell’università Bocconi, «se si guarda quella dell’innovazione bisogna rendersi conto che per l’europa è persa da tempo. La Ue tenta di applicare dazi protezionistici, perché tali sono le web tax sui ricavi, per forzare i colossi a dichiarare un po’ di più e gli Stati come l’irlanda a irrigidire le clausole fiscali». Facebook ha iniziato a cedere alle pressioni comunitarie in dicembre, comunicando la contabilizzazione dei ricavi nei singoli Paesi. Proprio i pareri dei fiscalmente morbidi Irlanda o Lussemburgo potrebbero rallentare o frenare il percorso della riforma europea. Mentre la partita, quella vera, si gioca da un’altra parte.