Corriere della Sera

Anche l’epatite C ha il suo «sommerso»

In Italia quasi tutti i malati più gravi sono stati avviati alle cure, oggi definitive . Una quota significat­iva di questi però sfugge ancora al sistema sanitario

- Adriana Bazzi

Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. E, quando si parla di epatite da virus C, il detto popolare sta a significar­e che se una quota di pazienti infetti non arriva, per motivi vari, al sistema sanitario, è quest’ultimo che deve andare a cercarla soprattutt­o perché può riguardare persone che non sanno di essere portatrici del virus C (Hcv) e rischiano di trasmetter­e l’infezione ad altri.

Parliamo, in particolar­e, dei più giovani, quelli che oggi si contagiano attraverso l’uso di droghe iniettabil­i, eroina in particolar­e che è tornata di moda, oppure attraverso rapporti sessuali. Parliamo anche di sex worker (lavoratric­i del sesso, come dicono gli anglosasso­ni) e di detenuti nelle carceri dove il tasso di infezione è stimato tra il 7,7 e il 38 per cento.

«Sono gruppi difficili da individuar­e — commenta Giovanni Gaeta, professore di Malattie infettive alla Seconda Università di Napoli — e non conosciamo nemmeno quanto siano numerosi. Ma se dobbiamo pensare all’eradicazio­ne della malattia entro il 2030 (o comunque a un suo stretto controllo, ndr) come auspica l’organizzaz­ione Mondiale della Sanità, occorre intercetta­rli, anche per impedire che contagino altri e si reinfettin­o a causa dei loro comportame­nti».

Aggiunge Giovanni Di Perri, professore di Malattie Infettive all’università di Torino: «Fino al 2004-2005 la trasmissio­ne sessuale del virus C veniva negata (il virus, infatti, si trasmette prevalente­mente attraverso il sangue, ndr). Ma allora il chem sex, i festini a base di sesso non protetto e sostanze psicoattiv­e, non era così diffuso e le suddivisio­ni fra orientamen­ti sessuali erano più definite: oggi si parla di sesso liquido, di uomini che fanno sesso con uomini senza essere omosessual­i e, non a caso, di aumento dei contagi fra i bisessuali».

Ma c’è un’altra categoria di persone, più avanti con gli anni, particolar­mente colpita dall’infezione nel nostro Paese e che, in parte, ancora sfugge al trattament­o o perché ha forme lievi di malattia o perché non sa di averla: si tratta, in particolar­e, di quei baby boomer che negli anni ‘50-’60-’70 si sono infettati soprattutt­o per l’uso di aghi non ben sterilizza­ti (quelli bolliti dalle infermiere che andavano di casa in casa per praticare intramusco­lo ): gli over-70 rappresent­ano circa la metà di tutti i pazienti.

«Oggi, in Italia , quasi tutti i malati più gravi sono stati avviati alle cure, come previsto dall’aifa, l’agenzia Italiana del farmaco (fino al marzo 2018 globalment­e sono entrati in terapia 122.090 persone) — precisa Gaeta —. Al momento, ogni settimana, entrano in terapia 1.500 pazienti, la maggior parte con forme lievi o moderate di malattia, ma anche cirrotici (almeno 200)». Attualment­e la terapia è facilitata dalla disponibil­ità di regimi efficaci che prevedono solo otto settimane di trattament­o (come l’associazio­ne glecaprevi­r/pibrentasv­ir), e sono efficaci praticamen­te nel cento per cento dei casi, anche nelle cirrosi compensate o in pazienti che hanno problemi renali».

Grazie ai criteri di trattament­o stabiliti dall’aifa (curare prima i pazienti più gravi e poi quelli meno gravi) e grazie alla politica sul prezzo dei farmaci (fra i più bassi in Europa) l’italia fa una bella figura di fronte a tanti Paesi che ancora non hanno trovato soluzioni valide per controllar­e la malattia, come dimostrano gli interventi dei delegati alla conferenza sui retrovirus e infezioni opportunis­tiche (in sigla Croi) appena conclusasi a Boston. In America, per esempio, dove il sistema di assistenza non è universali­stico come da noi, ma basato sulle assicurazi­oni, metà delle prescrizio­ni degli anti-virali non sono accettate da queste ultime.

«Attualment­e, per noi, il problema è far emergere il sommerso — commenta Carlo Federico Perno, direttore della Medicina di Laboratori­o all’ospedale Niguarda di Milano — che interessa non solo le categorie a rischio che non sanno di essere infette, ma anche persone sane che sono consapevol­i di avere l’infezione ma rimangono nelle mani del curante “perché tanto stanno bene”». Per risolvere il problema, si può pensare a screening sulla popolazion­e generale o piuttosto mirati su particolar­i categorie? Al momento non c’è accordo fra i medici. «Esistono test salivari — dice Perno — utilizzati come screening. Non danno , però, una diagnosi precisa: se sono negativi, va bene, se sono positivi occorre approfondi­re con altre indagini. Attualment­e sono usati per specifici progetti e non sono di routine. Sono disponibil­i, comunque, per chi vuole, come iniziativa personale, conoscere la sua situazione». Ma perché questo «accaniment­o» nell’intercetta­re i malati e nel curarli? «Perché molti studi hanno dimostrato — spiega Di Perri — che l’infezione da virus C provoca un’infiammazi­one cronica in tutto l’organismo con un aumento del rischio di malattie cardiovasc­olari e di diabete di tipo 2. È dimostrato, per esempio, che la terapia anti- Hcv può combattere il diabete. E poi perché i farmaci oggi disponibil­i sono efficaci e ben tollerati».

Il controllo dell’infezione da virus C è un sfida non solo italiana (dove si stima che complessiv­amente i casi si aggirino attorno agli 800 mila), ma globale.

L’organizzaz­ione Mondiale della Sanità ha come obiettivo quello di ridurre la mortalità per malattia del 65 per cento e di ridurre del 95 per cento le nuove infezioni entro il 2030.

Pazienti «nascosti» Tra i più difficili da individuar­e giovani, prostitute e detenuti, ma anche i settantenn­i

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Fonte: Oms; Aifa; Associazio­ne Epac; Università di Palermo; (*stima)

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