Anche l’epatite C ha il suo «sommerso»
In Italia quasi tutti i malati più gravi sono stati avviati alle cure, oggi definitive . Una quota significativa di questi però sfugge ancora al sistema sanitario
Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. E, quando si parla di epatite da virus C, il detto popolare sta a significare che se una quota di pazienti infetti non arriva, per motivi vari, al sistema sanitario, è quest’ultimo che deve andare a cercarla soprattutto perché può riguardare persone che non sanno di essere portatrici del virus C (Hcv) e rischiano di trasmettere l’infezione ad altri.
Parliamo, in particolare, dei più giovani, quelli che oggi si contagiano attraverso l’uso di droghe iniettabili, eroina in particolare che è tornata di moda, oppure attraverso rapporti sessuali. Parliamo anche di sex worker (lavoratrici del sesso, come dicono gli anglosassoni) e di detenuti nelle carceri dove il tasso di infezione è stimato tra il 7,7 e il 38 per cento.
«Sono gruppi difficili da individuare — commenta Giovanni Gaeta, professore di Malattie infettive alla Seconda Università di Napoli — e non conosciamo nemmeno quanto siano numerosi. Ma se dobbiamo pensare all’eradicazione della malattia entro il 2030 (o comunque a un suo stretto controllo, ndr) come auspica l’organizzazione Mondiale della Sanità, occorre intercettarli, anche per impedire che contagino altri e si reinfettino a causa dei loro comportamenti».
Aggiunge Giovanni Di Perri, professore di Malattie Infettive all’università di Torino: «Fino al 2004-2005 la trasmissione sessuale del virus C veniva negata (il virus, infatti, si trasmette prevalentemente attraverso il sangue, ndr). Ma allora il chem sex, i festini a base di sesso non protetto e sostanze psicoattive, non era così diffuso e le suddivisioni fra orientamenti sessuali erano più definite: oggi si parla di sesso liquido, di uomini che fanno sesso con uomini senza essere omosessuali e, non a caso, di aumento dei contagi fra i bisessuali».
Ma c’è un’altra categoria di persone, più avanti con gli anni, particolarmente colpita dall’infezione nel nostro Paese e che, in parte, ancora sfugge al trattamento o perché ha forme lievi di malattia o perché non sa di averla: si tratta, in particolare, di quei baby boomer che negli anni ‘50-’60-’70 si sono infettati soprattutto per l’uso di aghi non ben sterilizzati (quelli bolliti dalle infermiere che andavano di casa in casa per praticare intramuscolo ): gli over-70 rappresentano circa la metà di tutti i pazienti.
«Oggi, in Italia , quasi tutti i malati più gravi sono stati avviati alle cure, come previsto dall’aifa, l’agenzia Italiana del farmaco (fino al marzo 2018 globalmente sono entrati in terapia 122.090 persone) — precisa Gaeta —. Al momento, ogni settimana, entrano in terapia 1.500 pazienti, la maggior parte con forme lievi o moderate di malattia, ma anche cirrotici (almeno 200)». Attualmente la terapia è facilitata dalla disponibilità di regimi efficaci che prevedono solo otto settimane di trattamento (come l’associazione glecaprevir/pibrentasvir), e sono efficaci praticamente nel cento per cento dei casi, anche nelle cirrosi compensate o in pazienti che hanno problemi renali».
Grazie ai criteri di trattamento stabiliti dall’aifa (curare prima i pazienti più gravi e poi quelli meno gravi) e grazie alla politica sul prezzo dei farmaci (fra i più bassi in Europa) l’italia fa una bella figura di fronte a tanti Paesi che ancora non hanno trovato soluzioni valide per controllare la malattia, come dimostrano gli interventi dei delegati alla conferenza sui retrovirus e infezioni opportunistiche (in sigla Croi) appena conclusasi a Boston. In America, per esempio, dove il sistema di assistenza non è universalistico come da noi, ma basato sulle assicurazioni, metà delle prescrizioni degli anti-virali non sono accettate da queste ultime.
«Attualmente, per noi, il problema è far emergere il sommerso — commenta Carlo Federico Perno, direttore della Medicina di Laboratorio all’ospedale Niguarda di Milano — che interessa non solo le categorie a rischio che non sanno di essere infette, ma anche persone sane che sono consapevoli di avere l’infezione ma rimangono nelle mani del curante “perché tanto stanno bene”». Per risolvere il problema, si può pensare a screening sulla popolazione generale o piuttosto mirati su particolari categorie? Al momento non c’è accordo fra i medici. «Esistono test salivari — dice Perno — utilizzati come screening. Non danno , però, una diagnosi precisa: se sono negativi, va bene, se sono positivi occorre approfondire con altre indagini. Attualmente sono usati per specifici progetti e non sono di routine. Sono disponibili, comunque, per chi vuole, come iniziativa personale, conoscere la sua situazione». Ma perché questo «accanimento» nell’intercettare i malati e nel curarli? «Perché molti studi hanno dimostrato — spiega Di Perri — che l’infezione da virus C provoca un’infiammazione cronica in tutto l’organismo con un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e di diabete di tipo 2. È dimostrato, per esempio, che la terapia anti- Hcv può combattere il diabete. E poi perché i farmaci oggi disponibili sono efficaci e ben tollerati».
Il controllo dell’infezione da virus C è un sfida non solo italiana (dove si stima che complessivamente i casi si aggirino attorno agli 800 mila), ma globale.
L’organizzazione Mondiale della Sanità ha come obiettivo quello di ridurre la mortalità per malattia del 65 per cento e di ridurre del 95 per cento le nuove infezioni entro il 2030.
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