COME FARE A NON PERDERE LA PARTITA DIGITALE
Lavoro e cambiamenti Entro il 2030 mezzo miliardo di persone dovranno imparare nuove competenze Da noi le imprese in grado di evolversi sono al Nord
La digital week di Milano ha confermato l’interesse degli italiani nei confronti del digitale. Non sembrano spaventati dallo «sconquasso» sul lavoro paventato da accademici e politici di tutto il mondo. Sbagliano, il rischio è enorme, ma non perché il computer farà il lavoro di tutti, ma perché la nostra economia rischia di perdere la transizione verso la rivoluzione digitale, come ha fallito quella post industriale.
La trasformazione in economia digitale iniziata col personal computer, continuata con Internet ed esplosa con lo smartphone è in accelerazione grazie alla riduzione delle barriere di accesso alle infrastrutture (per esempio il cloud computing) e alla crescente intelligenza dei computer (artificiale) che consente di interpretare e sfruttare milioni di dati. Chi scrive siede in consigli di amministrazione di imprese internazionali e osserva giornalmente le opportunità di crescita offerte dal digitale. Possibilità di accedere a nuovi mercati via ecommerce, spendere meglio i soldi in pubblicità, comprare online, capire il rischio di un richiedente di una polizza auto per fare tariffe personalizzate, ecc.
Le economie che saranno vincenti si preparano alla sfida digitale con l’obbiettivo di sfruttarne le opportunità, senza sottovalutare l’entità della sfida stessa. Hanno imparato dalla storia come la rivoluzione industriale ha eliminato milioni di posti di lavoro nei campi per crearne di più nelle fabbriche e quella post industriale li ha spostati dalle fabbriche ai servizi (commercio, banche e assicurazioni, professioni, turismo, software aziendali). Sanno che sino a oggi la rivoluzione digitale ha seguito le orme delle due precedenti: si stima che dall’inizio dell’era digitale, in Usa si sono persi 3,5 milioni di posti di lavoro ma ne sono stati creati 19 milioni di nuovi. La sfida continua: da qui al 2030 mezzo miliardo di persone dovranno riconvertirsi e imparare nuove competenze e sarà necessaria una rivoluzione nella scuola.
Da noi, invece, non sembriamo neanche accorgerci del già importante ritardo digitale della nostra economia, impietosamente documentato da diverse statistiche che ci posizionano a livello di economie
Statistiche Sotto l’aspetto dell’innovazione, la nostra economia si colloca tra le emergenti
emergenti. Come recuperare? Attendersi che la nostra Pubblica amministrazione (Pa) risalga dal 45° posto della classifica delle Pa più digitalizzate è una pia illusione. È vero che la nomina, tre anni fa, di Diego Piacentini (ex Amazon) a leader della agenzia digitale ha fatto fare passi avanti, ma la politica italiana di questi tempi non fa ben sperare e, a settembre, Piacentini se ne torna a Seattle.
Devono farlo le imprese. Che peraltro sono già in ritardo: l’ultima indagine del Politecnico di Milano sull’ecommerce rivela che rappresenta solo il 5,7 % del fatturato delle imprese italiane contro più del doppio di quelle francesi, tegruppo desche, inglesi e americane (siamo anche dietro a quelle spagnole). La ragione è sempre la stessa, «piccolo è brutto» anche nel digitale: una recente ricerca del Global Institute Mckinsey rivela che in tutto il mondo le Pmi faticano più delle grandi a sfruttare l’opportunità del digitale. E da noi, proprio per la cultura degli ultimi 40 anni, di imprese grandi ce ne sono poche. Un po’ di ottimismo viene però da un altro evento di questa settimana (sempre a Milano). Alla Borsa, in occasione del primo compleanno di L’economia, sono state presentate 500 Pmi tra i 20 e i 100 milioni di fatturato, veri «campioni della crescita»
Ottimismo Ci sono 500 aziende nel nostro Paese ben avviate: potrebbero fare da traino per le altre?
grazie all’innovazione, anche digitale. Ascoltando le loro storie sono emersi i due ingredienti di successo per vincere la sfida.
1) Il digital talent che non vuole dire solo informatica, ma risorse umane capaci di elaborare risposte innovative, spirito critico, con capacità di analizzare i dati e di lavorare in team, competenze importanti nell’era post industriale, ma cruciali nella nuova era. Gli imprenditori di nuova generazione che parlavano sul palco erano molto diversi da quelli del secolo scorso, unici veri motori dell’innovazione alla ricerca di maestranze leali per realizzare le proprie idee: per i 500 le idee vengono dal loro di lavoro. 2) Un mercato evoluto: se si vende solo alla Pa italiana, difficilmente si troverà un terreno fertile all’innovazione, i campioni italiani sono inseriti in un network europeo. E il digitale è una arma formidabile per cambiare le regole con cui inserirsi: oggi i mercati internazionali si possono servire online senza bisogno che l’imprenditore vada in giro con la valigia; e le aziende italiane della moda possono capire cosa vendere a Hong Kong utilizzando i data analytics ei social media per studiare le nuove collezioni e ridurre i tempi di consegna da 40 a 6 settimane grazie ai sistemi operativi digitali.
Questi 500 campioni sono in gran parte del Nord Italia e riflettono un’accelerazione di quanto avviene da anni: un Nord integrato con l’europa che è in ripresa economica e un Sud in crescente difficoltà. È possibile che queste 500 Pmi possano diventare 500 grandi imprese? È possibile che il loro esempio possa trascinare tutta l'economia italiana ed evitare di perdere anche la rivoluzione digitale dei prossimi 30 anni?
Può succedere solo se gli italiani rivedranno le loro priorità rispetto alla desolante lista di temi sui quali si è combattuta la campagna elettorale degli ultimi mesi: educazione di qualità e non blocco della immigrazione, come iniziare a lavorare a 20 anni e studiare fino a 60 e non andare in pensione prima possibile, la Germania come mercato dei nostri prodotti e servizi e non come principale causa della nostra austerità fiscale, reddito da lavoro digitale e non reddito di cittadinanza per chi perde il lavoro per colpa del digitale.