Mondo cane, cioè mondo uomo
Si chiama Ray, è alla deriva e salva un animale messo forse peggio di lui: due fratelli, quasi
Correva l’anno 1918, la Germania attraversava una stagione molto difficile e tormentata della sua storia. Un grande tedesco, lo scrittore Thomas Mann impegnato a quel tempo nella realizzazione del suo capolavoro La montagna incantata, svegliandosi una mattina dell’umore giusto decise di fare quattro passi aspettando la prima colazione.
Vuol «starsene una mezz’ora all’aperto» prima che «il lavoro lo riprenda». Con un fischio, che si rifà almeno nell’intenzione a due note del secondo tempo dell’incompiuta di Schubert, chiama a fargli compagnia il suo Bauschan: un festoso e scodinzolante bracco tedesco non proprio ortodosso, tale da potersi considerare senza offese anzi con simpatia un mezzo «bastardotto».
Dalle feste che quel suo fedele compagno di passeggiate viene facendogli nasce in Mann l’idea d’un racconto. Questa la cornice dello «studio zoologico» che passerà alla storia della letteratura col titolo di Cane e padrone. In quella narrazione esemplare ancorché prolissa Mann fa emergere con precisione i confini tra l’uomo e il mondo animale. Sottolinea, con spirito laico e illuminato, quelli che a suo giudizio costituiscono dei limiti inviolabili: l’intelligenza coadiuvata dalla ragione da un lato e l’istinto dall’altra, tanto è dire lui stesso da una parte e l’animale identificato con lo scodinzolante Bauschan dall’altra.
A ricordarmi quelle pagine classiche è sopraggiunta a un secolo esatto di distanza dal loro apparire un’intelligente e riuscita provocazione. No, non è l’opera di una ambientalista ma un romanzo di prepotente originalità, violento e casto, intitolato senza uso di maiuscole fiore frutto foglia fango (traduzione di Ada Arduini, NN Editore).
Protagonisti alla pari, va messo subito in risalto, sono un uomo di cinquantasette anni, Ray, e un povero, malandatissimo cane detto Unocchio (ha infatti un solo occhio poiché l’altro l’ha perso in un feroce combattimento con un tasso). Sono ennon trambi, sia l’uomo che l’animale, campioni di disadattamento. Borderline? Questa diagnosi rende abbastanza bene l’idea ma toglie originalità e poesia al racconto. Sta di fatto che Sara Baume, l’autrice, è bravissima a levare di mezzo tutto quello che di ovvio e di banale potrebbe disgiungere i suoi due protagonisti, affiatatissimi campioni di una desolata deriva esistenziale. A unirli, facendo loro quasi da bandiera, è di fatto l’emarginazione.
L’inizio colpisce con la forza d’un cazzotto. Ray, che si dichiara per un oscuro desiderio di degradarsi portatore d’un odoraccio di «muffa porridge e piscio», è irresistibilmente attratto dalla foto d’un bastardo senza molte speranze di sopravvivenza. Si reca così senza porre tempo in mezzo al canile dove il disgraziato quadrupede sopravvive in attesa di venir a breve eliminato. Ray lo libera però da una gabbia di isolamento parcheggiata accanto ai fetidi bidoni della raccolta differenziata e lo salva. Inizia cosi una convivenza uomocane che dovrà ben presto trasformarsi in una fuga. La ragione? È una non ragione che nasconde l’intolleranza per due come Ray e Unocchio.
Nata in chiave romanzesca la narrazione viene traducendosi qua e là in una favola nera. Fa sfoggio d’un suo libero cercarsi. Trae vigore da un oscuro pessimismo e approssimandosi al finale si lascia andare a tentazioni grandguignolesche (penso alla pagina dove Ray conduce i lettori nella stanza dove è conservato il cadavere del padre straziato dai topi). Hanno molta importanza nel testo le pagine sul cibo e la descrizioni degli odori. Si avvertono i lieviti e le tentazioni dello sperimentalismo, si riconoscono le esuberanze d’un talento che si cerca fuori e oltre i confini della narrativa tradizionale.
sono quelle della Baume pagine scritte col cuore in mano. Tutt’altro.
Credo sia a questo punto importante mettere in evidenza che l’autrice, nata trentaquattro anni fa nel Lancashire, è venuta però formandosi in Irlanda, la terra di Beckett. Va soggiunto che l’autore di Aspettando Godot non c’entra con lei anche se... La materia di cui sono fatti Ray e Unocchio, personaggi per loro natura estremi, fa pensare in certi momenti (almeno cosi m’è sembrato) da quella di cui sono costituiti Vladimiro e Estragone, i due protagonisti appunto di Aspettando Godot.
Non la facciamo difficile però. Va detto infatti che il racconto della Baume si raccomanda sia a quanti, amando i cani, vanno cercando pagine utili a farli amare con sentimenti filtrati dalla più spregiudicata modernità quanto a coloro che vogliano leggere nell’attuale calma piatta un’opera narrativa finalmente a sorpresa. Diversa, originale, azzardata e apprezzabile anche nelle sue forzature.
Ascendenze
Naturale pensare a «Cane e padrone» di Thomas Mann ma forse ci sono più affinità con «Aspettando Godot» di Beckett