Unì gli intellettuali e i braccianti Mio padre a Bari
Un anno fa moriva mio padre, partigiano, intellettuale, dirigente comunista, politico della Prima Repubblica, uno dei fondatori del Partito democratico. Mio padre era pugliese, era nato a Barletta nel 1925 da una famiglia benestante che si trasferì a Roma quando lui era ancora bambino. La sua formazione quindi fu a Roma, prima al liceo Tasso. Poi passò dall’interesse per la letteratura all’azione antifascista nei Gap romani. Nel Dopoguerra, come altri giovani di origine borghese, scelse il Partito comunista.
In queste righe vorrei ricordare la sua esperienza di dirigente politico in Puglia negli anni Sessanta. Nel 1963 Palmiro Togliatti, all’epoca segretario del Pci, gli chiese di trasferirsi a Bari per rafforzare l’organizzazione, ma anche forse per formare lui, borghese cittadino e probabilmente presuntuoso intellettuale, obbligandolo a cimentarsi con la realtà di una società arretrata, ma in veloce cambiamento. Una rivoluzione culturale all’italiana: un politico nazionale — e lui non fu il solo — torna in periferia per portarvi capacità di analisi e organizzazione, ma anche per apprendere. Così mio padre scese al Sud, da Roma. Non partiva per una breve campagna elettorale, ma per una missione di anni, essenziale al partito per stabilire una connessione con la società Alfredo Reichlin civile pugliese ed essenziale (1925-2017) per lui, per
capire quel pezzo di società meridionale e quindi — come politico — per rappresentarla.
Io, bambina, venivo messa su un aereo per andare a trovarlo di tanto in tanto. Ricordo i comizi a cui io lo accompagnavo, con piazze gremite di braccianti agricoli che lo ammiravano perché parlava l’italiano e che erano lì per ragionare con lui. Ricordo le serate a Bari con gli intellettuali, con cui lui aveva stabilito uno strettissimo rapporto, interlocutori altrettanto essenziali dei braccianti. Io capivo poco, ma sentivo che intorno a quelle discussioni si formavano straordinarie amicizie, legami tra persone di provenienza diversa, che volevano capire e cambiare l’italia.
Scrive mio padre nel suo libro Il midollo del leone (Laterza, 2010): «Cercavamo di combinare la lotta elementare del bracciante per la “giornata” — il miserabile compenso per la sua immensa fatica — con quella degli edili e degli operai delle nuove fabbriche di Bari e Taranto. E tutto ciò dentro una idea dello sviluppo moderno della Puglia e del Mezzogiorno. Facemmo del grande piano di irrigazione del Tavoliere la nostra bandiera. Il ruolo degli intellettuali era quello di fare da cemento di un nuovo possibile blocco storico. Illusioni? Certo, anche. Resta il fatto che così ho imparato a capire che cos’è fare politica non in astratto, ma in un territorio: non solo un luogo fisico, ma un impasto di storia, di cultura, di persone».
Non voglio mitizzare quella stagione, sicuramente densa di sconfitte ed errori, ma la ricordo per il messaggio che contiene. Senza un rapporto con la società, la politica cessa di essere il laboratorio essenziale al processo democratico e diventa solo gioco di palazzo. È per avere perso questa ispirazione che i partiti sono spariti oggi un po’ ovunque, ma in particolare al Sud, dove l’assenza di un progetto nazionale e di una infrastruttura che possa dar voce alla società civile locale ha portato a un voto che esprime la protesta non solo di chi chiede assistenzialismo, ma anche di chi non si sente più rappresentato.