VIGNAIOLI E VINI D’ITALIA 2018
La 5ª edizione della guida del Corriere: cento bottiglie eccellenti e le storie dei loro produttori
«Mi son sicuro che se el Deo Padre, in la persona invece de imparárghelo al Noè, tanto tempo dopo, sto truco meravigióso de schisciáre l’üga, de trar foeura el vino, ol ghe l’avesse insegnát subito, fin dal prinzipio, all’adamo, subito, prima dell’eva, subito!… non sarésmo in sto mundo malarbéto, sarésmo tuti
in paradiso, salüt!» «Malarbéto», nel grammelot di Dario Fo, significa maledetto, il resto si capisce, è molto facile: il vino ci avrebbe reso tutti migliori, se sperimentato subito nell’eden.
Tuttavia, ogni volta che sfoglio la guida all’eccellenza di Luciano Ferraro e Luca Gardini, «I migliori 100 vini e vignaioli d’italia», edizioni Corriere della Sera, 2018, mi sembra di fare un salto in paradiso, in mezzo alle persone migliori, dove il «nettare degli dei» è servito con l’eleganza che il posto richiede.
La singolarità di questa guida è che i vini non sono mai disgiunti da chi li fa. Ogni vino è una storia, dietro ogni bottiglia c’è l’anima composita del viticoltore, agricoltore e artista, lavoratore e sognatore. Il suo fascino consiste proprio nelle storie che racconta. Il vino è cultura, tradizione, rito. Il vino è segno di un’identità che nasce dal rispetto delle varietà, è linguaggio, è cerimonia: il suo miracolo sta proprio nell’atto del ricordare, del legarsi a una radice. Scrivono i due autori: «Sottrarre il vino al suo destino di ennesimo prodotto della cultura di massa, all’indistinto frastuono del linguaggio per questo tecnico incomprensibile (quindi specialistico ai più) e è l’obiettivo di questa guida. Arrivata alla sua quinta edizione, vuole fornire tracce per percorsi possibili, alla scoperta delle persone celate dietro le etichette. 100 storie del vino, il distillato inebriante degli ultimi cinque anni di interviste, visite, assaggi, incontri. 100 vignaioli diversi, dall’ultimo discendente di una nobile casata al giovane che riscatta la storia famigliare segnata dalla mezzadria. Con la passione come filo conduttore». Nel rileggere queste parole, è l’unica volta che mi pento del mestiere che faccio. Dopo una sbornia di 100 programmi televisivi cosa resta? Qualche appunto, qualche idea, qualche emozione (rara), molta stanchezza unita a un senso di smarrimento. Dopo aver visitato 100 cantine (tanto per restare nel numero magico) immagino che il risultato sia ben diverso. Anzi,
ne sono sicuro. Non ricordo più quale celebre artista avesse a disposizione una cantina di ottomila bottiglie. A chi gli faceva osservare che sarebbe stato impossibile berle tutte (come quando uno, osservando la libreria, ti chiede: «ma li hai letti tutti?»), amava rispondere: «Non importa. L’importante è poter scegliere secondo le mie voglie». In questo meraviglioso viaggio da Nord a Sud si passa da un Blanc de Morgex a un Fiano dell’irpinia, da un Pelaverga di Verduno (una rarità) a un Montepulciano d’abruzzo, da un Rosso Faye della Val di Cembra a un Nero d’avola. Poi risento le voci delle persone che conosco come i Barolo Brothers (Bruno e Marcello Ceretto) che sull’etichetta mettono la foto delle vigne, «così chi beve quel vino ha sotto gli occhi la vigna da cui proviene. La vigna è storia, i nomi delle colline restano nel tempo. Una vigna la puoi cercare, visitare e toccare sempre». O come Matteo Sardagna dei Poderi Einaudi di Dogliani: «Per me non si tratta solo di fare il vino, ma di un serio e affettuoso sentimento per continuare l’opera del bisnonno Luigi». (Lo confesso, da langarolo avrei voluto vedere più vini del mio piccolo Eden, ma so che devo aspettare soltanto un altro anno, la prossima edizione della Guida). Una volta, intervistato sui suoi piaceri enologici, il mai troppo rimpianto Giuseppe Pontiggia rispose: «Non voglio fare discorsi stupidamente umanistici o troppo retorici, dire che dietro alla vite c’è sempre un pezzo di mondo contadino, di radici nostre, di memorie, ma la differenza tra una grande auto e un grande vino resta proprio questa: ormai sono due prodotti
altamente tecnologici, solo che la lamiera non risente del brutto tempo, la terra invece sì». E poi ancora: «Io alla leggenda che bisogna bere tanto per scrivere bene non ci credo. Sarà che con me non funziona, davanti alla parola io ho bisogno di lucidità, di concentrazione. Anche se è vero che il vino ha anche una funzione liberante, sblocca le inibizioni, aiuta a liberare le energie sconosciute. Ai convegni, agli incontri letterari non si fa che incontrare gente che non mangia, non beve, non fuma, che sta a dieta, attenta al colesterolo, alla pressione. Le belle cene con splendide bevute diventano sempre più rare. L’editoria a convegno da un punto vista enologico
Percorsi e volti
Alla scoperta delle persone che stanno dietro le etichette, dai discendenti di nobili casate al riscatto dei nipoti di mezzadri
fa pena».
Lo penso anch’io e so che una causa della non grande stagione letteraria che stiamo vivendo (le parole sono come il vino, hanno bisogno del respiro e di tempo) dipende dalla scarsa cultura enologica di molti scrittori. Ma anche di molti altri intellettuali. Liquido, per esempio, è un aggettivo di gran moda, dopo che il sociologo Zygmunt Bauman ha teorizzato la «società liquida», una società — la nostra — segnata da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile. Dopo la fine delle grandi ideologie, è nata la «società liquida», una grande svolta dalla solidità rocciosa dell’epoca industriale fordista alla instabile fragilità dell’oggi. Internet è il grande liquido amniotico in cui viviamo.
Ho sempre pensato come sarebbe diverso il mondo, se questa benedetta liquidità fosse tale solo grazie al vino.