Gli archivi che mancano
Le stanze riservate dove custodire le registrazioni e gli altri nodi della nuova norma
Non ci sono i server, i pc, gli apparati di sorveglianza e sicurezza e le stanze dove metterli, non c’è il personale e le regole organizzative sono evanescenti. Nessuna delle 140 Procure italiane ha allestito l’archivio «riservato» dove custodire le intercettazioni previsto dal decreto legislativo varato a dicembre. Quando mancano quattro mesi all’entrata in vigore della nuova norma, gli addetti ai lavori scommettono su un rinvio chiesto da molti.
«Abbiamo un Paese che usa le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno», disse il ministro della Giustizia Orlando dopo l’approvazione del decreto. L’obiettivo era di impedire che la privacy delle persone fosse violata dai giornali, come fosse un fenomeno così diffuso da richiedere un intervento urgente. In verità, a parte rari episodi illegali, di solito vengono pubblicate solo intercettazioni che sono agli atti, depurate dei dati che non riguardano le indagini. La nuova procedura rischia di restringere anche il campo visivo di pm e avvocati. Le tanto discusse intercettazioni in Italia sono in calo: si è passati dalle 141.169 del 2013 alle 130.746 del 2016. Scende anche la spesa: dai 300 milioni del 2009 si è arrivati ai 205 del 2016. Quelle telefoniche sono la maggioranza (110.688), seguite da ambientali (15.984) e «altre», come i «captatori informatici» o «trojan» (4.074). I numeri si riferiscono ai «bersagli» colpiti e non alle persone, che sono molte meno. Un sospettato per corruzione che, ad esempio, usa un cellulare, un pc, un tablet, ha un’auto, un ufficio e una casa, si traduce in sei bersagli da ascoltare.
La riforma sembra non piacere a nessuno, o almeno non tutta. È stato introdotto il divieto di trascrizione, anche sommaria, delle intercettazioni non rilevanti. Quelle, cioè, che riguardano i dati sensibili (preferenze sessuali, vizi privati, salute, opinioni politiche, religione) o delle conversazioni tra l’indagato e il suo difensore. A decidere se un’intercettazione è irrilevante non è il pm, ma la polizia giudiziaria. Se pensa che lo sia si limita a scrivere nel brogliaccio (l’elenco dei colloqui con il sunto di quelli rilevanti) solo ora, data e dispositivo con il quale è stata eseguita. In caso di dubbi, chiama il pm, e se questi la valuta in modo diverso deve emettere un decreto che autorizza la trascrizione. Il rischio è che una conversazione che è irrilevante ma molto compromettente per chi viene ascoltato, e che quindi non arriva al pm, resti a conoscenza del solo agente che l’ha sentita, il quale potrebbe doverla rivelare ai suoi superiori (come gli impone una norma molto discussa varata l’anno scorso). E chi garantisce che a qualche superiore non possa venire in mente di usarla in modo distorto, magari per un ricatto?
Il presidente dell’anm Eugenio Albamonte ha parlato di «strapotere della polizia giudiziaria» mentre «diventa impossibile un vero controllo da parte del pm». Gli atti vanno conservati in un archivio riservato gestito «sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica, con modalità tali da assicurare la tutela del segreto». Se per difendere meglio i loro assistiti gli avvocati vogliono accedere all’archivio — per capire se ci sono intercettazioni non usate dall’accusa ma che potrebbero essere utili — le possono solo ascoltare senza copiarle o trascriverle. Quegli stessi dati, però, rischiano di restare paradossalmente a totale disposizione delle società private che fanno le intercettazioni e che, come si è visto almeno in un caso, potrebbero anche usarli per fini non proprio leciti.
Intervenendo a Milano a un convegno organizzato da Unicost, la corrente più rappresentativa nella magistratura che poi ha chiesto di differire la norma, il procuratore Francesco Greco ha detto chiaramente che per luglio non sarà possibile allestire l’archivio, aggiungendo che i procuratori sono «sconcertati» per «problemi che consiglierebbero un ministro più attento e un legislatore più accorto a rinviare l’applicazione». Dal ministero, invece, assicurano che si procede affinché si sia pronti per il 26 luglio. Pare comunque che ci sia la volontà di trovare una soluzione condivisa. Anche gli avvocati sono sul piede di guerra. Plaudono alla «esigenza» di evitare le «intollerabili» fughe di notizie, ma sono preoccupati per la compressione del diritto di difesa. Solo un imputato con grandi mezzi economici potrebbe permettersi uno stuolo di legali che, armati della sola memoria, in massimo 20 giorni scandaglino ore e ore di intercettazioni per trovare quella che salva il cliente. C’è poi la questione dei «trojan», i virus informatici che possono essere inoculati dagli investigatori negli smartphone copiandone il contenuto e attivando microfoni e telecamere. Strumento molto invasivo per la libertà, prima era usato quasi esclusivamente per delitti di mafia e di terrorismo, ora viene esteso ad altri reati da una nuova normativa che aumenta passaggi burocratici, costi e tempi della giustizia.