Sangue sulla marcia a Gaza
Oltre mille feriti, usati droni con i lacrimogeni. La protesta convocata «per 6 settimane» Scontri al confine, uccisi 15 palestinesi. Israele: miliziani di Hamas tra i civili
Violenti scontri lungo il confine della Striscia di Gaza dove quella che i palestinesi hanno chiamato «la grande Marcia del ritorno» si è trasformata in battaglia, con i droni usati dall’esercito israeliano per lanciare lacrimogeni sulla folla. Quindici i palestinesi uccisi, oltre mille feriti. Il governo Netanyahu accusa Hamas: miliziani tra i civili.
GERUSALEMME Le tende bianche sono state montate a cinquecento metri dalla barriera e dai soldati israeliani, le botti rifornite d’acqua. L’accampamento è stato tirato su per durare: almeno sei settimane, quanto dovrebbe resistere quella che i palestinesi proclamano come la «Marcia del Ritorno».
Ieri, dopo le preghiere del venerdì, i primi passi sulla sabbia, le prime violenze. In ventimila si sono mossi dai villaggi nella Striscia di Gaza: con le bandiere, i volti coperti dalle keffiah, si sono avvicinati al reticolato, a quella zona che Israele considera inviolabile. I comandanti avevano dispiegato le truppe rafforzate lungo il perimetro: per impedire una breccia, per colpire i leader della protesta e provare a controllarla. Hanno utilizzato le tattiche di sempre (un centinaio di tiratori scelti nei punti più rischiosi) e armi nuove come i droni armati di lacrimogeni. Gli arabi uccisi sono 15, un migliaio i feriti, portati in ospedale per l’intossicazione o centrati dai proiettili di gomma. B’tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, denuncia come illegale l’ordine di sparare su manifestanti disarmati.
Il governo israeliano accusa i capi fondamentalisti di aver mandato la gente a farsi ammazzare, di aver mischiato i miliziani tra i civili. L’idea dei cortei «pacifici» è stata lanciata dagli attivisti attraverso i social media. Hamas, che spadroneggia a Gaza dal 2007, se ne è impossessata. Il leader Ismail Haniyeh dichiara: «con queste manifestazioni dimostreremo che il diritto al ritorno in tutta la Palestina non è solo uno slogan. Non ci fermeremo». Fino al 15 maggio: per i palestinesi è il giorno della Nakba, la «catastrofe», così chiamano la nascita di Israele. Che quest’anno celebra — 24 ore prima — i settant’anni con l’inaugurazione ufficiale dell’ambasciata americana a Gerusalemme. E il messaggio di Haniyeh è anche per Donald Trump, forse soprattutto: «Non rinunciamo a Gerusalemme». «Settant’anni fa abbiamo dovuto andarcene dalle nostre case e adesso abbiamo deciso di ritornare», proclama Khaled al-batsh, boss del Jihad islamico, che assieme ad Hamas è nella lista nera di europei e americani delle organizzazioni terroristiche.
Nei giorni scorsi le fazioni avevano distribuito a Gaza l’immagine di bambini in bicicletta la cui ombra disegnava il numero 194 come la risoluzione Onu che nel 1948 ha riconosciuto «il diritto al ritorno dei palestinesi». Una richiesta che i negoziatori arabi hanno sempre inserito nelle discussioni — congelate ormai dall’aprile del 2014 — attorno a un possibile accordo di pace. Gli israeliani non sono mai stati disposti ad accettare quello che significherebbe la fine della maggioranza ebraica nel Paese.
Lo Stato Maggiore è preoccupato che la barriera attorno alla Striscia — commentano gli analisti militari — non sia più impenetrabile. Da sabato scorso piccoli gruppi sono riusciti a infiltrarsi cinque volte, qualcuno solo in cerca di lavoro dall’altra parte. Ieri all’alba un contadino è stato ucciso da un colpo sparato da un carrarmato, secondo l’esercito stava cercando di piazzare una carica di esplosivo vicino alle postazioni militari, i palestinesi sostengono che stesse tagliando l’erba nel suo campo.