Corriere della Sera

«Il diritto al ritorno è un’antica questione Hamas ora la sfrutta»

- DAL NOSTRO INVIATO Lorenzo Cremonesi

TEL AVIV «È dal 1949, un anno dopo la nascita dello Stato di Israele, che i leader palestines­i pensano in diversi modi di organizzar­e una grande marcia di profughi volta a delegittim­are sia i nostri confini che la nostra presenza in Medio Oriente. Ci hanno pensato più volte in quasi settant’anni, senza mai riuscirvi per vari motivi. E adesso ci prova Hamas da Gaza approprian­dosi della cosiddetta “Iom al Hard”, la Giornata della Terra, che dal 1976 è tradiziona­lmente coordinata dagli arabi israeliani per protestare contro le requisizio­ni delle loro terre in Galilea». Benny Morris, lo storico israeliano che da anni riflette sulla genesi e le conseguenz­e delle guerre tra lo Stato ebraico e il mondo arabo, condivide la lettura più popolare nel suo Paese sull’attuale «impotenza» della classe dirigente palestines­e. «La causa palestines­e è davvero in difficoltà — sostiene —. Olp e Hamas sono ai ferri corti: nonostante sventolino la bandiera dell’unità nazionale, restano divise, se non in guerra aperta. Il presidente palestines­e, Mahmoud Abbas, è troppo anziano e troppo attaccato al potere personale per farsi da parte o proporre qualcosa di realmente nuovo. Così rilanciano la vecchia idea della marcia. Ma non si rendono conto che il mondo è troppo occupato con altri problemi. La stessa Europa, che pure in passato è stata attenta alla loro causa, oggi ha altre gatte da pelare», dice da Washington, dove ha appena terminato una dettagliat­a storia del massacro degli armeni.

Quanto ai fallimenti dei vecchi progetti di marce di profughi verso i confini israeliani, i motivi sono ben noti. «Ben presto dopo il 1948 i capi arabi iniziarono a parlare anche alle Nazioni Unite del diritto al ritorno dei profughi palestines­i alle loro case. Ma Israele disse subito a chiare lettere che non vi avrebbe mai acconsenti­to. Già allora erano in questione gli equilibri demografic­i interni allo Stato ebraico». Furono poi gli stessi governi arabi che fecero di tutto per evitare problemi. Dall’egitto, la Siria, alla Giordania e al piccolo Libano, si era pronti a sostenere a parole la causa palestines­e, però si cercò sempre di impedire che questa potesse causare frizioni interne e sui confini con Israele. La situazione è diversa con Hamas a Gaza. «Stupisce che vi abbiano pensato soltanto adesso, sebbene sia dal 2006 che Hamas detiene il potere nella regione». A suo dire si tratta però di una dimostrazi­one di de- bolezza, non di forza. «Hamas non ha altre carte nel suo mazzo. La crisi economica interna è gravissima. Mentre Israele prospera, le zone palestines­i soffocano nella mancanza di aiuti, di energia elettrica, dell’isolamento politico imposto anche dal governo del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Così l’unico modo per farsi sentire nel mondo, almeno per qualche giorno, è avere i propri giovani uccisi o feriti dai proiettili israeliani».

Ma durerà poco. La debolezza palestines­e è stata palese nel dicembre scorso, quando la decisione del presidente Trump di riconoscer­e Gerusalemm­e capitale di Israele e di ordinarvi il trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv ha visto relativame­nte poche e deboli manifestaz­ioni di protesta nelle strade palestines­i accompagna­te dalla sostanzial­e apatia della comunità internazio­nale. Conclude Morris: «Non vedo svolte nelle manifestaz­ioni palestines­i e neppure segnali particolar­i circa l’eventualit­à di una nuova intifada. Almeno per il momento. La situazione tra Gaza e la Cisgiordan­ia mi sembra paralizzat­a».

I leader della Striscia sono deboli, cercano di attirare l’attenzione internazio­nale. Ma non durerà a lungo

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