ALLENTARE I VINCOLI EUROPEI? ECCO I RISCHI INEVITABILI
L’ avvertimento di Oscar Wilde, «ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere... la seconda è ottenerlo», può tornare utile per chi avrà la responsabilità di sviluppare i rapporti tra l’italia e l’europa nei prossimi mesi. L’intenzione, espressa da più parti durante la campagna elettorale, di non rimettere in discussione i vincoli europei sulle finanze pubbliche e di riconsiderare la partecipazione all’euro, viene valutata con molta attenzione dai nostri partner e dalle istituzioni comunitarie.
La richiesta di allentare i vincoli di finanza pubblica riscontra paradossalmente un certo interesse in alcuni ambienti, in particolare quelli accademici tedeschi e francesi, i quali ritengono che le regole vigenti non abbiano inciso come previsto ed abbiano perso di credibilità. Secondo questa tesi, sarebbe meglio eliminare tali regole, e sostituirle con meccanismi più semplici, basati in larga parte sulla disciplina di mercato. Si lascerebbe in questo caso proprio ai mercati finanziari il compito di valutare se un disavanzo pubblico è eccessivo e se il debito di un Paese è sostenibile. Per rafforzare la capacità del mercato di svolgere questa funzione di sorveglianza, uno stato in difficoltà di bilancio non potrebbe però più chiedere il sostegno al Fondo salva Stati europeo, se non ha preventivamente avviato una procedura di ristrutturazione del proprio debito. In altre parole, l’aiuto fornito dagli altri Paesi sarebbe condizionato alla riduzione del valore dei titoli di Stato detenuti dagli investitori, nazionali ed internazionali.
Questo tipo di proposta ha una sua coerenza. Se si vogliono allentare le regole di bilancio, bisogna sostituirle con una disciplina di mercato più stringente, con una maggiore consapevolezza da parte degli investitori riguardo al rischio dei titoli che acquistano. Tuttavia, l’esperienza dimostra che i mercati finanziari sono meno efficienti, meno prevedibili e meno teneri nei confronti dei Paesi che emettono debito pubblico di quanto non lo siano le istituzioni europee. Gli investitori, nazionali ed internazionali, tendono ad acquistare titoli di Stato con bassi Programma concordato La spirale di instabilità potrebbe essere arrestata dalla Bce solo a fronte di un piano di risanamento
tassi d’interesse per un periodo di tempo prolungato, dando l’impressione che non vi siano rischi, e all’improvviso cambiare rapidamente opinione, facendo salire i rendimenti su livelli insostenibili e generando forti turbolenze. Rendere automatica, o più facile, la ristrutturazione del debito pubblico, in alternativa alle regole di bilancio europee, accentua l’incertezza sui mercati. In effetti, la prospettiva di una imminente ristrutturazione spinge gli investitori a vendere i titoli detenuti in portafoglio, il che fa salire ulterior- mente i tassi d’interesse, rende il debito meno sostenibile, e la ristrutturazione ancor più probabile. Si viene a creare un pericoloso corto-circuito che accelera l’instabilità finanziaria, con effetti recessivi sul sistema bancario e sull’economia reale.
La Banca centrale europea potrebbe intervenire per disinnescare questa spirale di instabilità, come si è impegnata a fare nell’ambito delle operazioni definitive monetarie, ma solo a condizione che il Paese si sottoponga ad un programma di risanamento concordato con le istituzioni europee (la cosiddetta Troika).
Il secondo desiderio, espresso da alcuni in campagna elettorale, riguarda la possibilità di considerare, anche come ultima ratio, l’uscita dell’italia dall’euro. Tale uscita non è prevista dai trattati europei, che considerano irrevocabile l’adesione alla moneta unica. Tuttavia, comincia a circolare la tesi, sostenuta in particolare da alcuni accademici tedeschi, che poiché non è possibile negare la richiesta ufficiale di un Paese di uscire dall’euro, magari dopo una consultazione popolare, sarebbe preferibile incoraggiarne preventivamente l’uscita. Questa tesi fu sostenuta anche dall’allora ministro dell’economia tedesco Schäuble, durante la fase più acuta della crisi greca.
Anche in questo caso, la proposta ha una sua coerenza. Se un Paese non vuole più far parte dell’unione monetaria, e vuole tornare a stampare una moneta propria, meglio prevedere delle clausole che ne facilitino l’uscita e che riducano le ripercussioni negative per gli altri.
Il problema è che un tale meccanismo farebbe aumentare l’incertezza sulla permanenza nell’euro dei vari Paesi, soprattutto quelli con maggiori difficoltà. Dato che l’uscita dall’euro comporterebbe il rischio di una riduzione significativa del valore delle attività finanziarie, che verrebbero ridenominate nella nuova moneta svalutata, i risparmiatori sarebbero immediatamente indotti a spostare i loro investimenti all’estero, provocando il collasso del sistema bancario nazionale. Gli operatori di mercato venderebbero i titoli di Stato, facendo salire i tassi d’interesse con conseguenze negative per la sostenibilità del debito pubblico. In altre parole, se la partecipazione all’euro diventasse facilmente revocabile, la probabilità di una uscita dall’euro aumenterebbe, per effetto della fuga di capitali innescata dalla paura stessa che l’evento si realizzi. Anche in questo caso, la spirale di instabilità potrebbe essere arrestata dalla Bce, ma solo a condizione che il Paese si vincoli a un programma di risanamento concordato con le istituzioni europee.
In sintesi, la richiesta di allentare i vincoli europei di bilancio e di prevedere la possibilità di uscire dall’euro può a prima vista sembrare attraente, perché apre nuove opzioni di politica economica ai Paesi europei. In realtà, produce il risultato opposto. Consegna la sovranità ai mercati finanziari; che, come hanno dimostrato gli eventi recenti, sono poco efficienti e spesso facilmente manipolabili.
Senza scomodare Oscar Wilde, sarebbe come cadere dalla padella alla brace.