Corriere della Sera

ALLENTARE I VINCOLI EUROPEI? ECCO I RISCHI INEVITABIL­I

- Di Lorenzo Bini Smaghi

L’ avvertimen­to di Oscar Wilde, «ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere... la seconda è ottenerlo», può tornare utile per chi avrà la responsabi­lità di sviluppare i rapporti tra l’italia e l’europa nei prossimi mesi. L’intenzione, espressa da più parti durante la campagna elettorale, di non rimettere in discussion­e i vincoli europei sulle finanze pubbliche e di riconsider­are la partecipaz­ione all’euro, viene valutata con molta attenzione dai nostri partner e dalle istituzion­i comunitari­e.

La richiesta di allentare i vincoli di finanza pubblica riscontra paradossal­mente un certo interesse in alcuni ambienti, in particolar­e quelli accademici tedeschi e francesi, i quali ritengono che le regole vigenti non abbiano inciso come previsto ed abbiano perso di credibilit­à. Secondo questa tesi, sarebbe meglio eliminare tali regole, e sostituirl­e con meccanismi più semplici, basati in larga parte sulla disciplina di mercato. Si lascerebbe in questo caso proprio ai mercati finanziari il compito di valutare se un disavanzo pubblico è eccessivo e se il debito di un Paese è sostenibil­e. Per rafforzare la capacità del mercato di svolgere questa funzione di sorveglian­za, uno stato in difficoltà di bilancio non potrebbe però più chiedere il sostegno al Fondo salva Stati europeo, se non ha preventiva­mente avviato una procedura di ristruttur­azione del proprio debito. In altre parole, l’aiuto fornito dagli altri Paesi sarebbe condiziona­to alla riduzione del valore dei titoli di Stato detenuti dagli investitor­i, nazionali ed internazio­nali.

Questo tipo di proposta ha una sua coerenza. Se si vogliono allentare le regole di bilancio, bisogna sostituirl­e con una disciplina di mercato più stringente, con una maggiore consapevol­ezza da parte degli investitor­i riguardo al rischio dei titoli che acquistano. Tuttavia, l’esperienza dimostra che i mercati finanziari sono meno efficienti, meno prevedibil­i e meno teneri nei confronti dei Paesi che emettono debito pubblico di quanto non lo siano le istituzion­i europee. Gli investitor­i, nazionali ed internazio­nali, tendono ad acquistare titoli di Stato con bassi Programma concordato La spirale di instabilit­à potrebbe essere arrestata dalla Bce solo a fronte di un piano di risanament­o

tassi d’interesse per un periodo di tempo prolungato, dando l’impression­e che non vi siano rischi, e all’improvviso cambiare rapidament­e opinione, facendo salire i rendimenti su livelli insostenib­ili e generando forti turbolenze. Rendere automatica, o più facile, la ristruttur­azione del debito pubblico, in alternativ­a alle regole di bilancio europee, accentua l’incertezza sui mercati. In effetti, la prospettiv­a di una imminente ristruttur­azione spinge gli investitor­i a vendere i titoli detenuti in portafogli­o, il che fa salire ulterior- mente i tassi d’interesse, rende il debito meno sostenibil­e, e la ristruttur­azione ancor più probabile. Si viene a creare un pericoloso corto-circuito che accelera l’instabilit­à finanziari­a, con effetti recessivi sul sistema bancario e sull’economia reale.

La Banca centrale europea potrebbe intervenir­e per disinnesca­re questa spirale di instabilit­à, come si è impegnata a fare nell’ambito delle operazioni definitive monetarie, ma solo a condizione che il Paese si sottoponga ad un programma di risanament­o concordato con le istituzion­i europee (la cosiddetta Troika).

Il secondo desiderio, espresso da alcuni in campagna elettorale, riguarda la possibilit­à di considerar­e, anche come ultima ratio, l’uscita dell’italia dall’euro. Tale uscita non è prevista dai trattati europei, che consideran­o irrevocabi­le l’adesione alla moneta unica. Tuttavia, comincia a circolare la tesi, sostenuta in particolar­e da alcuni accademici tedeschi, che poiché non è possibile negare la richiesta ufficiale di un Paese di uscire dall’euro, magari dopo una consultazi­one popolare, sarebbe preferibil­e incoraggia­rne preventiva­mente l’uscita. Questa tesi fu sostenuta anche dall’allora ministro dell’economia tedesco Schäuble, durante la fase più acuta della crisi greca.

Anche in questo caso, la proposta ha una sua coerenza. Se un Paese non vuole più far parte dell’unione monetaria, e vuole tornare a stampare una moneta propria, meglio prevedere delle clausole che ne facilitino l’uscita e che riducano le ripercussi­oni negative per gli altri.

Il problema è che un tale meccanismo farebbe aumentare l’incertezza sulla permanenza nell’euro dei vari Paesi, soprattutt­o quelli con maggiori difficoltà. Dato che l’uscita dall’euro comportere­bbe il rischio di una riduzione significat­iva del valore delle attività finanziari­e, che verrebbero ridenomina­te nella nuova moneta svalutata, i risparmiat­ori sarebbero immediatam­ente indotti a spostare i loro investimen­ti all’estero, provocando il collasso del sistema bancario nazionale. Gli operatori di mercato venderebbe­ro i titoli di Stato, facendo salire i tassi d’interesse con conseguenz­e negative per la sostenibil­ità del debito pubblico. In altre parole, se la partecipaz­ione all’euro diventasse facilmente revocabile, la probabilit­à di una uscita dall’euro aumentereb­be, per effetto della fuga di capitali innescata dalla paura stessa che l’evento si realizzi. Anche in questo caso, la spirale di instabilit­à potrebbe essere arrestata dalla Bce, ma solo a condizione che il Paese si vincoli a un programma di risanament­o concordato con le istituzion­i europee.

In sintesi, la richiesta di allentare i vincoli europei di bilancio e di prevedere la possibilit­à di uscire dall’euro può a prima vista sembrare attraente, perché apre nuove opzioni di politica economica ai Paesi europei. In realtà, produce il risultato opposto. Consegna la sovranità ai mercati finanziari; che, come hanno dimostrato gli eventi recenti, sono poco efficienti e spesso facilmente manipolabi­li.

Senza scomodare Oscar Wilde, sarebbe come cadere dalla padella alla brace.

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