Corriere della Sera

Inutile rimpianger­e il disegno di Moro Non aveva un futuro

Si affidava ai partiti che però erano in declino

- Di Ernesto Galli della Loggia

Sul mare di libri usciti per l’anniversar­io dell’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta — che hanno diritto anch’essi a essere ricordati per nome: erano il maresciall­o maggiore Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci, entrambi dei Carabinier­i, e poi il vicebrigad­iere Francesco Zizzi e le guardie Giuliano Rivera e Raffaele Iozzino, della Polizia di Stato — aleggia da allora un interrogat­ivo: che cosa sarebbe successo se il presidente della Dc non fosse stato rapito? E dalla risposta che si dà dipende quasi sempre non solo l’interpreta­zione dei veri motivi del delitto, ma addirittur­a del perché esso poté essere commesso senza che nulla riuscisse a impedirlo.

È questo per l’appunto l’interrogat­ivo che più o meno esplicitam­ente percorre anche il libro di Marco Damilano Un atomo di verità (Feltrinell­i): ma in questo caso con una finezza culturale e una cautela intellettu­ale che ne fanno, nel genere, un testo esemplare. Del quale su queste colonne ha già parlato Aldo Cazzullo, ma sulle cui pagine, proprio per la loro esemplarit­à, vorrei tornare per discutere di quello che è il vero centro del libro: e cioè la storia della nostra Repubblica. Non senza prima aver detto anche io, però, ripetendo quanto detto da Cazzullo, che si tratta di un libro anche letteraria­mente molto bello. Profondo e a tratti commovente nel suo carattere singolare che combina la rievocazio­ne storica con una sorta di pellegrina­ggio politico-sentimenta­le attraverso luoghi e memorie della Repubblica. Compiuto da chi quel giorno era ancora un bambino e sullo sfondo di quegli eventi ora ricorda pure se stesso, la sua infanzia e la sua gioventù, con un atto di devozione appena celata, mi pare d’indovinare, anche alla propria non dimenticat­a educazione cattolica.

Il filo storico che il libro svolge è l’idea che, sì, Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse, ma in realtà fu vittima di ben altro. Prendendo sorprenden­temente a prestito un’affermazio­ne di Mino Pecorelli — l’ambigua figura di giornalist­a implicato in affari oscuri e collegato ai servizi segreti, finito assassinat­o pure lui — Damilano infatti scrive: «È Yalta che ha deciso via Fani». Moro cioè sarebbe stato vittima dell’ostilità suscitata in chi, specie a livello internazio­nale, considerav­a inaccettab­ile la sua repentina svolta a sinistra dopo la débâcle elettorale subita nel 1968 dal governo che egli aveva presieduto nei cinque anni precedenti. Proprio il crescente terremoto sociale iniziato quell’anno sembrò averlo convinto, infatti, che solo un progressiv­o ingresso del Pci nell’area delle decisioni e alla fine del governo, solo l’allargamen­to del consenso così ottenuto, sarebbe stato in grado di assicurare al Paese la crescita economica, lo sviluppo sociale e la necessaria maturazion­e democratic­a che di per sé il partito cattolico non era più in grado di assicurare. Solo così avrebbe potuto essere posto rimedio all’intima «fragilità» e all’esasperata «passionali­tà» che secondo Moro minacciava­no da sempre la struttura del Paese Italia. Come solo così — pensa oggi anche Damilano —, solo se Moro non fosse stato eliminato e si fosse adottato il suo disegno, la Prima Repubblica avrebbe potuto forse rigenerars­i e non sarebbe morta.

Ma per l’appunto sarebbe stato proprio un tale progetto a procurare all’uomo politico pugliese l’ostilità assoluta non solo della destra interna e internazio­nale — in particolar­e degli Stati Uniti — ma pure della stessa Unione Sovietica, desiderosa che i comunisti restassero per sempre comunisti e per sempre aggiogati al suo carro. Una duplice ostilità che di fatto segnò la sorte del leader democristi­ano.

Poco importa che non ci sia alcuna prova che «Yalta» (cioè gli Usa) abbia «deciso via Fani»: poco importa che l’autore stesso riconosca esplicitam­ente che «il rapimento e l’omicidio di Moro sono maturati nell’ambiente della sinistra estrema»; poco importa che l’ipotesi avanzata da Damilano e mille volte da mille altri — secondo la quale proprio la cabina di comando «operativa» istituita presso il ministero degli Interni per trovare Moro, essendo costituita da un emissario del governo americano e dai capi dei servizi tutti iscritti alla P2, avrebbe deciso di «bloccare tutte le indagini per salvare il prigionier­o» —, poco importa, dicevo, che una tale ipotesi e in generale tutte le altre circa una qualche tenebrosa regia occulta siano state smontate in modo a mio avviso del tutto convincent­e. Poco importa: perché nulla conta di fronte al convincime­nto diffuso, e destinato ogni volta a prevalere, che i grandi eventi debbano per forza avere grandi cause, dando per scontato che tra queste non possano ovviamente esserci, come invece ahimè spessissim­o ci sono, la stupidità e la malvagità degli esseri umani.

Ma Damilano non può condivider­e una conclusion­e così desolantem­ente banale, tra l’altro suggestion­ato come egli è (anche letteraria­mente: e con effetti su questo piano non di rado convincent­i) dalle «enigmatich­e e tragiche

Non ci sono prove che il delitto sia stato il frutto di un congiura internazio­nale Le smentite di tutte le ricostruzi­oni cospirazio­niste appaiono convincent­i

correlazio­ni» leggibili nelle vicende della Prima Repubblica. Alcune delle quali effettivam­ente colpiscono e inducono a riflettere — penso a quella tra le Br e la P2, o a quella tra il discorso di Moro in difesa di Gui («non ci faremo processare sulle piazze») e quello dell’ultimo Craxi sul finanziame­nto dei partiti di fronte a un Parlamento ammutolito. A differenza di altre, invece, che mi appaiono alquanto forzate: penso ad esempio all’analogia che il libro in qualche modo istituisce tra l’uccisione brutale di Moro e la morte di Pier Paolo Pasolini: autore, guarda caso (qui sta il motivo dell’analogia) del celebre «Io so» riferito a quei presunti «misteri» italiani di cui pure Moro sarebbe stato vittima, ma di cui in realtà nulla lo scrittore sapeva, essendo quel suo articolo, al di là dell’alta maestria retorica con cui era costruito, niente di più che un fazioso e furioso atto d’accusa contro la Democrazia cristiana.

La verità è che dietro questo libro, dietro l’idea (espressa in queste pagine nel modo più sapiente perché più sfumato, ma non certo a scapito della chiarezza) che l’eliminazio­ne di Moro sia stata voluta da chi intendeva contrastar­e il suo disegno, dietro l’idea che tale disegno, se attuato, avrebbe cambiato il destino della Repubblica, c’è, io credo, un errato giudizio storico circa la crisi italiana, unito a un’indebita sopravvalu­tazione del potere della politica. Un errato giudizio e una sopravvalu­tazione che peraltro appaiono singolarme­nte analoghi a quelli che dopo il 1968 condussero lo stesso Moro a prendere le posizioni che prese.

Dopo i movimenti sociali di quell’anno Moro si convinse che il multiforme travaglio che la società italiana aveva cominciato ad attraversa­re e che sarebbe andato via via accentuand­osi, mettendone progressiv­amente in luce la «fragilità» e la «passionali­tà», poteva essere affrontato positivame­nte solo realizzand­o aggregazio­ni politiche nuove, evitando contrappos­izioni ormai secondo lui sempre meno giustifica­te, insomma accrescend­o la «coesione» del sistema. E che appunto a questo fine fosse necessario istituire un rapporto con i comunisti di tipo non più antagonist­ico (in forme e gradi ogni volta da definire), il quale richiedeva di essere governato da quella pratica in cui egli eccelleva come nessun altro: la mediazione. In ciò egli era veramente un figlio della Repubblica del Cln, della Repubblica dei partiti. Pensava infatti che la ricomposiz­ione di una società non potesse che iniziare dai partiti e prendere necessaria­mente la forma del compromess­o. Ma se la via politica era l’unica possibile, essa però comportava un prezzo non indifferen­te: «Implicava inevitabil­mente la necessità di subordinar­e ogni iniziativa, ogni decisione ed ogni concreto operare a logiche di partito che ben poco avevano a che fare con i problemi nuovi del Paese».

Sono parole non mie, come si capisce, bensì scritte molto tempo fa a proposito dell’azione di Moro da Pietro Scoppola (uno storico che Damilano conosce bene, essendone stato allievo): parole che hanno la portata di un lucido giudizio complessiv­o. Il quale ci aiuta a capire come ciò che rendeva radicalmen­te inadeguato il disegno di Moro fosse il fatto che le lacerazion­i prodotte dalla modernità nel corpo della società italiana andavano mettendo in crisi proprio i partiti, lo strumento partito, la sua cultura, la sua struttura e il suo rapporto con i cittadini. Cittadini sempre meno caratteriz­zabili come militanti, sempre meno raccolti intorno alle grandi dimensioni fordiste del lavoro, della fabbrica, dei sindacati, sempre meno definiti da un’appartenen­za collettiva, e viceversa sempre più orientati a riconoscer­si unicamente nella propria individual­ità, sempre più elettorato frammentat­o e indistinto, sempre più consumator­i e «pubblico». Senza contare un altro elemento importante, e cioè che i problemi nuovi che emergevano nell’italia nuova allora in formazione richiedeva­no innanzi tutto di fare cose nuove. Richiedeva­no specialmen­te, cioè, di cambiare il governo e i suoi modi, di cambiare le istituzion­i adottando, piuttosto che l’arte della mediazione e la tecnica del compromess­o, la volontà della decisione. Il che però richiedeva ancora una volta di cambiare preliminar­mente i partiti, di cambiare il loro sistema quale si era venuto storicamen­te definendo in Italia, e non già di irrigidirl­i e compattarl­i in una forte collaboraz­ione/compenetra­zione: come sarebbe inevitabil­mente accaduto — perlomeno per un tempo mediamente lungo — nel caso di una qualunque «unità nazionale», «solidariet­à democratic­a» o «larghe intese» che dir si voglia.

Il vasto dissenso riscosso dappertutt­o dalla prospettiv­a del «compromess­o storico» e poi la crescente ondata avversa alla «partitocra­zia» e al «sistema», che insieme caratteriz­zarono l’orientamen­to della società italiana negli ultimi anni Settanta e nel decennio successivo sono la migliore prova, a mio avviso, della inanità del disegno di Moro. Della sua profonda inattualit­à rispetto ai movimenti profondi della società italiana. Il cui anelito al rinnovamen­to istituzion­ale, i cui animal spirits intrisi d’individual­ismo, erano assai meglio interpreta­ti, invece, da quello che può essere considerat­o il vero progetto alternativ­o al suo: il progetto che per una breve stagione sembrò rappresent­ato da Craxi. Progetto che tra l’altro era per più versi in sintonia — a me pare, contrariam­ente a ciò che pensa Damilano — con le proposte che avrebbe avanzato Cossiga verso la fine del suo mandato.

Si trattò comunque di progetti destinati, sia pure per ragioni diversissi­me, al nulla. Non da oggi sappiamo che il loro fallimento segnò la fine di quella Repubblica che pure aveva dato agli italiani gli anni forse migliori della loro vita.

Già alla fine degli anni Settanta cresceva un’insofferen­za diffusa verso le forze politiche

 ??  ?? Biografia
● Aldo Moro (nella foto) era nato a Bari nel 1916. Già segretario della Dc e più volte capo del governo, venne rapito il 16 marzo 1978 (all’epoca era presidente del suo partito) e assassinat­o il 9 maggio dalle Brigate rosse
Biografia ● Aldo Moro (nella foto) era nato a Bari nel 1916. Già segretario della Dc e più volte capo del governo, venne rapito il 16 marzo 1978 (all’epoca era presidente del suo partito) e assassinat­o il 9 maggio dalle Brigate rosse
 ??  ?? ● Il libro di Marco Damilano sul caso Moro, Un atomo di verità, è edito da Feltrinell­i. Fino al 15 maggio è in edicola con il «Corriere» al prezzo di
11,90 la riedizione del libro su Moro di Giovanni Bianconi Eseguendo la sentenza, edito in...
● Il libro di Marco Damilano sul caso Moro, Un atomo di verità, è edito da Feltrinell­i. Fino al 15 maggio è in edicola con il «Corriere» al prezzo di 11,90 la riedizione del libro su Moro di Giovanni Bianconi Eseguendo la sentenza, edito in...
 ??  ?? L’eccidio
Una panoramica dall’alto scattata il 16 marzo 1978 durante i rilievi tecnici sulla scena dell’agguato in via Fani, a Roma, dove venne rapito Aldo Moro e furono assassinat­i i cinque agenti della sua scorta (foto Ansa)
L’eccidio Una panoramica dall’alto scattata il 16 marzo 1978 durante i rilievi tecnici sulla scena dell’agguato in via Fani, a Roma, dove venne rapito Aldo Moro e furono assassinat­i i cinque agenti della sua scorta (foto Ansa)
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy