Inutile rimpiangere il disegno di Moro Non aveva un futuro
Si affidava ai partiti che però erano in declino
Sul mare di libri usciti per l’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta — che hanno diritto anch’essi a essere ricordati per nome: erano il maresciallo maggiore Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci, entrambi dei Carabinieri, e poi il vicebrigadiere Francesco Zizzi e le guardie Giuliano Rivera e Raffaele Iozzino, della Polizia di Stato — aleggia da allora un interrogativo: che cosa sarebbe successo se il presidente della Dc non fosse stato rapito? E dalla risposta che si dà dipende quasi sempre non solo l’interpretazione dei veri motivi del delitto, ma addirittura del perché esso poté essere commesso senza che nulla riuscisse a impedirlo.
È questo per l’appunto l’interrogativo che più o meno esplicitamente percorre anche il libro di Marco Damilano Un atomo di verità (Feltrinelli): ma in questo caso con una finezza culturale e una cautela intellettuale che ne fanno, nel genere, un testo esemplare. Del quale su queste colonne ha già parlato Aldo Cazzullo, ma sulle cui pagine, proprio per la loro esemplarità, vorrei tornare per discutere di quello che è il vero centro del libro: e cioè la storia della nostra Repubblica. Non senza prima aver detto anche io, però, ripetendo quanto detto da Cazzullo, che si tratta di un libro anche letterariamente molto bello. Profondo e a tratti commovente nel suo carattere singolare che combina la rievocazione storica con una sorta di pellegrinaggio politico-sentimentale attraverso luoghi e memorie della Repubblica. Compiuto da chi quel giorno era ancora un bambino e sullo sfondo di quegli eventi ora ricorda pure se stesso, la sua infanzia e la sua gioventù, con un atto di devozione appena celata, mi pare d’indovinare, anche alla propria non dimenticata educazione cattolica.
Il filo storico che il libro svolge è l’idea che, sì, Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse, ma in realtà fu vittima di ben altro. Prendendo sorprendentemente a prestito un’affermazione di Mino Pecorelli — l’ambigua figura di giornalista implicato in affari oscuri e collegato ai servizi segreti, finito assassinato pure lui — Damilano infatti scrive: «È Yalta che ha deciso via Fani». Moro cioè sarebbe stato vittima dell’ostilità suscitata in chi, specie a livello internazionale, considerava inaccettabile la sua repentina svolta a sinistra dopo la débâcle elettorale subita nel 1968 dal governo che egli aveva presieduto nei cinque anni precedenti. Proprio il crescente terremoto sociale iniziato quell’anno sembrò averlo convinto, infatti, che solo un progressivo ingresso del Pci nell’area delle decisioni e alla fine del governo, solo l’allargamento del consenso così ottenuto, sarebbe stato in grado di assicurare al Paese la crescita economica, lo sviluppo sociale e la necessaria maturazione democratica che di per sé il partito cattolico non era più in grado di assicurare. Solo così avrebbe potuto essere posto rimedio all’intima «fragilità» e all’esasperata «passionalità» che secondo Moro minacciavano da sempre la struttura del Paese Italia. Come solo così — pensa oggi anche Damilano —, solo se Moro non fosse stato eliminato e si fosse adottato il suo disegno, la Prima Repubblica avrebbe potuto forse rigenerarsi e non sarebbe morta.
Ma per l’appunto sarebbe stato proprio un tale progetto a procurare all’uomo politico pugliese l’ostilità assoluta non solo della destra interna e internazionale — in particolare degli Stati Uniti — ma pure della stessa Unione Sovietica, desiderosa che i comunisti restassero per sempre comunisti e per sempre aggiogati al suo carro. Una duplice ostilità che di fatto segnò la sorte del leader democristiano.
Poco importa che non ci sia alcuna prova che «Yalta» (cioè gli Usa) abbia «deciso via Fani»: poco importa che l’autore stesso riconosca esplicitamente che «il rapimento e l’omicidio di Moro sono maturati nell’ambiente della sinistra estrema»; poco importa che l’ipotesi avanzata da Damilano e mille volte da mille altri — secondo la quale proprio la cabina di comando «operativa» istituita presso il ministero degli Interni per trovare Moro, essendo costituita da un emissario del governo americano e dai capi dei servizi tutti iscritti alla P2, avrebbe deciso di «bloccare tutte le indagini per salvare il prigioniero» —, poco importa, dicevo, che una tale ipotesi e in generale tutte le altre circa una qualche tenebrosa regia occulta siano state smontate in modo a mio avviso del tutto convincente. Poco importa: perché nulla conta di fronte al convincimento diffuso, e destinato ogni volta a prevalere, che i grandi eventi debbano per forza avere grandi cause, dando per scontato che tra queste non possano ovviamente esserci, come invece ahimè spessissimo ci sono, la stupidità e la malvagità degli esseri umani.
Ma Damilano non può condividere una conclusione così desolantemente banale, tra l’altro suggestionato come egli è (anche letterariamente: e con effetti su questo piano non di rado convincenti) dalle «enigmatiche e tragiche
Non ci sono prove che il delitto sia stato il frutto di un congiura internazionale Le smentite di tutte le ricostruzioni cospirazioniste appaiono convincenti
correlazioni» leggibili nelle vicende della Prima Repubblica. Alcune delle quali effettivamente colpiscono e inducono a riflettere — penso a quella tra le Br e la P2, o a quella tra il discorso di Moro in difesa di Gui («non ci faremo processare sulle piazze») e quello dell’ultimo Craxi sul finanziamento dei partiti di fronte a un Parlamento ammutolito. A differenza di altre, invece, che mi appaiono alquanto forzate: penso ad esempio all’analogia che il libro in qualche modo istituisce tra l’uccisione brutale di Moro e la morte di Pier Paolo Pasolini: autore, guarda caso (qui sta il motivo dell’analogia) del celebre «Io so» riferito a quei presunti «misteri» italiani di cui pure Moro sarebbe stato vittima, ma di cui in realtà nulla lo scrittore sapeva, essendo quel suo articolo, al di là dell’alta maestria retorica con cui era costruito, niente di più che un fazioso e furioso atto d’accusa contro la Democrazia cristiana.
La verità è che dietro questo libro, dietro l’idea (espressa in queste pagine nel modo più sapiente perché più sfumato, ma non certo a scapito della chiarezza) che l’eliminazione di Moro sia stata voluta da chi intendeva contrastare il suo disegno, dietro l’idea che tale disegno, se attuato, avrebbe cambiato il destino della Repubblica, c’è, io credo, un errato giudizio storico circa la crisi italiana, unito a un’indebita sopravvalutazione del potere della politica. Un errato giudizio e una sopravvalutazione che peraltro appaiono singolarmente analoghi a quelli che dopo il 1968 condussero lo stesso Moro a prendere le posizioni che prese.
Dopo i movimenti sociali di quell’anno Moro si convinse che il multiforme travaglio che la società italiana aveva cominciato ad attraversare e che sarebbe andato via via accentuandosi, mettendone progressivamente in luce la «fragilità» e la «passionalità», poteva essere affrontato positivamente solo realizzando aggregazioni politiche nuove, evitando contrapposizioni ormai secondo lui sempre meno giustificate, insomma accrescendo la «coesione» del sistema. E che appunto a questo fine fosse necessario istituire un rapporto con i comunisti di tipo non più antagonistico (in forme e gradi ogni volta da definire), il quale richiedeva di essere governato da quella pratica in cui egli eccelleva come nessun altro: la mediazione. In ciò egli era veramente un figlio della Repubblica del Cln, della Repubblica dei partiti. Pensava infatti che la ricomposizione di una società non potesse che iniziare dai partiti e prendere necessariamente la forma del compromesso. Ma se la via politica era l’unica possibile, essa però comportava un prezzo non indifferente: «Implicava inevitabilmente la necessità di subordinare ogni iniziativa, ogni decisione ed ogni concreto operare a logiche di partito che ben poco avevano a che fare con i problemi nuovi del Paese».
Sono parole non mie, come si capisce, bensì scritte molto tempo fa a proposito dell’azione di Moro da Pietro Scoppola (uno storico che Damilano conosce bene, essendone stato allievo): parole che hanno la portata di un lucido giudizio complessivo. Il quale ci aiuta a capire come ciò che rendeva radicalmente inadeguato il disegno di Moro fosse il fatto che le lacerazioni prodotte dalla modernità nel corpo della società italiana andavano mettendo in crisi proprio i partiti, lo strumento partito, la sua cultura, la sua struttura e il suo rapporto con i cittadini. Cittadini sempre meno caratterizzabili come militanti, sempre meno raccolti intorno alle grandi dimensioni fordiste del lavoro, della fabbrica, dei sindacati, sempre meno definiti da un’appartenenza collettiva, e viceversa sempre più orientati a riconoscersi unicamente nella propria individualità, sempre più elettorato frammentato e indistinto, sempre più consumatori e «pubblico». Senza contare un altro elemento importante, e cioè che i problemi nuovi che emergevano nell’italia nuova allora in formazione richiedevano innanzi tutto di fare cose nuove. Richiedevano specialmente, cioè, di cambiare il governo e i suoi modi, di cambiare le istituzioni adottando, piuttosto che l’arte della mediazione e la tecnica del compromesso, la volontà della decisione. Il che però richiedeva ancora una volta di cambiare preliminarmente i partiti, di cambiare il loro sistema quale si era venuto storicamente definendo in Italia, e non già di irrigidirli e compattarli in una forte collaborazione/compenetrazione: come sarebbe inevitabilmente accaduto — perlomeno per un tempo mediamente lungo — nel caso di una qualunque «unità nazionale», «solidarietà democratica» o «larghe intese» che dir si voglia.
Il vasto dissenso riscosso dappertutto dalla prospettiva del «compromesso storico» e poi la crescente ondata avversa alla «partitocrazia» e al «sistema», che insieme caratterizzarono l’orientamento della società italiana negli ultimi anni Settanta e nel decennio successivo sono la migliore prova, a mio avviso, della inanità del disegno di Moro. Della sua profonda inattualità rispetto ai movimenti profondi della società italiana. Il cui anelito al rinnovamento istituzionale, i cui animal spirits intrisi d’individualismo, erano assai meglio interpretati, invece, da quello che può essere considerato il vero progetto alternativo al suo: il progetto che per una breve stagione sembrò rappresentato da Craxi. Progetto che tra l’altro era per più versi in sintonia — a me pare, contrariamente a ciò che pensa Damilano — con le proposte che avrebbe avanzato Cossiga verso la fine del suo mandato.
Si trattò comunque di progetti destinati, sia pure per ragioni diversissime, al nulla. Non da oggi sappiamo che il loro fallimento segnò la fine di quella Repubblica che pure aveva dato agli italiani gli anni forse migliori della loro vita.
Già alla fine degli anni Settanta cresceva un’insofferenza diffusa verso le forze politiche