Gaza, Onu e Ue chiedono indagini indipendenti
Ieri i funerali dei 16 palestinesi. Israele avverte: miliziani tra le vittime, Hamas usa i cortei per attaccare
I cortei questa volta seguono i cadaveri avvolti nei lenzuoli, gli slogan e le bandiere sono gli stessi. I palestinesi di Gaza seppelliscono i 16 morti di venerdì, il numero più alto in un solo giorno dalla guerra tra luglio e agosto del 2014. E guerra — o almeno incursioni mirate dentro la Striscia — minacciano i comandanti israeliani. «Non permetteremo uno sfondamento di massa della barriera — avverte il portavoce Ronen Manelis —. Hamas e gli altri gruppi usano le manifestazioni per organizzare attacchi, se la violenza continua saremo costretti ad allargare le operazioni militari». E il premier Benjamin Netanyahu ha elogiato i militari: «Hanno protetto i confini del Paese. Complimenti ai nostri soldati».
Antonio Guterres, segretario generale delle Nazione Unite, chiede un’inchiesta «indipendente e trasparente» sulle uccisioni: un video mostra un palestinese centrato alle spalle da un tiratore scelto mentre cerca di scappare. E così anche l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini: «Israele ha il diritto di proteggere i suoi confini, ma l’uso della forza deve essere proporzionato in ogni momento».
Il movimento fondamentalista che dal 2007 spadroneggia nel corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’egitto e il Mediterraneo ammette che 5 tra i morti appartengono alle Brigate Ezzedin Al Qassam, le sue truppe irregolari. Prova a ribadire il valore «spontaneo» delle manifestazioni: «Erano lì fianco a fianco con la loro gente». Yahya Sinwar, il capo del gruppo dentro la Striscia, ha voluto dimostrarlo presentandosi ai cortei con moglie e figli. «Una grande opportunità di propaganda per Hamas — scrive Avi Issacharoff sul giornale digitale Times of Israel — e un successo. I leader sono riusciti dove Abu Mazen, il presidente palestinese, ha fallito: organizzare la protesta più grande (quasi 30 mila persone) dai tempi della seconda intifada».
Hamas e altre fazioni come la Jihad islamica — inserite nella lista nera anti-terrorismo di Ue e Usa — vogliono alimentare le manifestazioni fino al 15 maggio, quando gli arabi commemorano la Nakba, la «catastrofe», così chiamano la nascita di Israele settant’anni fa. Quest’anno solo 24 ore prima le celebrazioni a Gerusalemme ruotano attorno all’inaugurazione ufficiale dell’ambasciata americana: Donald Trump ha riconosciuto la città come capitale dello Stato ebraico, i palestinesi non hanno mai rinunciato all’idea di farne la loro capitale in una futura nazione.
Come non hanno mai rinunciato a porre durante i negoziati — immobili dall’aprile del 2014 — la questione del diritto al ritorno dei rifugiati: «Abbiamo dovuto andarcene dalle nostre case, abbiamo deciso di riprendercele», ha proclamato Khaled al-batsh, boss della Jihad islamica.
Il numero simbolo delle proteste di venerdì e delle prossime sei settimane è il 194: è la risoluzione con cui nel 1948 l’onu sanciva che i palestinesi fuggiti o cacciati durante la guerra avrebbero dovuto ritornarci.