«Ad aiutarmi sono stati i genitori di Ilaria Alpi: lettere ai giudici per me»
Il racconto del somalo Hashi, 17 anni in cella da innocente
«Tre milioni — dice — sono pochi: niente rispetto all’inferno che ho vissuto. Diciassette anni della mia vita valgono molto di più e tutto quel tempo non mi verrà mai restituito».
Chi ha perso la vita e chi, a 47 anni, quasi non ne ha avuta una: Hashi Omar Hassan è l’altra vittima del caso Alpi. Accusato ingiustamente dell’omicidio della giornalista del Tg3 — il suo grande accusatore, Ahmed Ali Rage, scomparso dall’italia, non è mai stato cercato e mai ha deposto in aula («depistaggio» hanno detto i giudici di Perugia) — ha scontato 17 anni di carcere nelle celle speciali di Rebibbia, Sulmona, Biella, Padova.
Cosa lo abbia salvato non si sa, ma chi lo conosce, come i suoi avvocati Antonio Moriconi e Douglas Duale, dice che questo ragazzone di Mogadiscio non ha mai perso la forza e ha sempre trovato il modo di farsi benvolere.
Prima, da un ispettore di Rebibbia, che negli anni, è arrivato a considerarlo alla maniera di un figlio. Poi, durante i permessi premio, dal parroco della comunità di Padova, don Luca Favarin, che gli ha dato fiducia. Ma, soprattutto, dalla famiglia di Ilaria Alpi. Ed ecco perché, all’indomani della sentenza che stabilisce il suo risarcimento, Hashi ringrazia Luciana Alpi. E dall’olanda, dove si trova in questi giorni, dice: «Durante questi anni in cui ho sempre detto di essere innocente, la famiglia di Ilaria mi ha creduto e ha fatto quello che poteva per cercare la verità, sapevano che ero solo un capro espiatorio. E mentre mi trovavo in carcere hanno scritto lettere ai magistrati per farmi uscire, è anche grazie a loro se ho ottenuto i permessi». Oggi Hashi è un uomo di quasi cinquant’anni con una bambina di pochi mesi e una compagna conosciuta in Olanda, dove vivevano la madre e altri parenti.
Capro espiatorio. Luciana Alpi, rimasta sola a cercare la verità (il papà di Ilaria, Giorgio,
è morto da sei anni) lo ha citato nel suo libro Esecuzione con depistaggi di Stato
(Kaos edizioni). In un’intervista, rilasciata a La Stampa il 15 marzo 2014, aveva detto con chiarezza quello che pensava di lui: «Hashi Omar Hassan è innocente, nessun dubbio. È tornato in Italia dopo l’assoluzione di primo grado dimostrando la sua buona fede».
L’ex ragazzino di Mogadiscio è la prova vivente di equivoci e depistaggi. «Il carcere — dice l’avvocato Moriconi — è stato interminabile e durissimo. I suoi genitori non hanno mai ottenuto il visto per l’italia. Ha trascorso 17 anni senza vederli. Suo padre, un militare dell’esercito somalo, gli ha trasmesso disciplina e senso della giustizia».
Negli anni più crudeli, quelli della detenzione a Rebibbia e poi nel carcere di Sulmona, gomito a gomito con i mafiosi, Hassan ha studiato l’italiano. Il pensiero di essere considerato un assassino lo ha sempre preoccupato più di qualunque privazione: «Finalmente tutti sapranno che non ho ucciso», ha esultato il 19 ottobre 2016 dopo l’assoluzione. Per un po’ la detenzione lo aveva quasi pietrificato. E infatti dice: «Porto dentro un grande dolore, sono stato accusato ingiustamente, le autorità italiane non mi hanno mai creduto (oltre al processo Api-hrovatin Hassan era stato arrestato anche per una violenza, ma pure da quella contestazione, che lo aveva fatto finire in carcere, è stato assolto ndr), la mia posizione era debole, era troppo facile accusarmi, ora non voglio vendette voglio solo rifarmi una vita».
Una vita. Un giorno di aprile del 1994 Hashi seppe dell’omicidio della giornalista via radio. In un Paese che si sintonizzava per sapere o distrarsi (i notiziari; il calcio) Hashi, non poteva certo intuire. Eppure nei confronti dell’italia non c’è rancore. Mercoledì sarà a Roma per parlare con i suoi avvocati, poi a Padova: «Da lì voglio ripartire — dice — anche se mi resta una grande amarezza per Ilaria e Miran... qualcuno non ha voluto cercare una verità».
Una nuova vita «Porto dentro un grande dolore. Ora non voglio vendette, voglio solo rifarmi una vita»