IL PROFILO SOCIAL, UNA «FEDINA PENALE» PER IL VISTO NEGLI USA
Nome, cognome, cittadinanza e account di Facebook. Milioni di persone alla frontiera degli Stati Uniti si sentiranno chiedere di mostrare come hanno gestito la propria vita digitale negli ultimi cinque anni. La proposta lanciata dal Dipartimento di Stato prevede che, oltre al passaporto, chi proviene da quelle aree dove si richiede un visto per entrare temporaneamente su suolo americano (40 le nazioni escluse, tra cui l’italia) dovrà esibire i propri profili social. Si citano venti piattaforme, con base negli Usa (Facebook, Twitter, Youtube o Linkedin), ma anche in Cina o in Russia. Finora il controllo aggiuntivo era indirizzato solo ai visti per immigrazione, circa 700 mila annui. L’amministrazione Trump ora preme perché lo screening di video condivisi e retweet venga esteso a chi viaggia per lavoro, vacanza o motivi di studio. In dogana, insieme ai propri post, si lasceranno anche indirizzi email, numeri di telefono e registro degli ultimi spostamenti ( fisici, questa volta). Quattordici milioni di utenti che d’ora in poi dovranno riflettere prima di cliccare il pulsante «pubblica». Perché se il Dipartimento di Stato giustifica la proposta definendola una mossa nella lotta al terrorismo, le implicazioni sono più profonde. Può il permesso di entrare in un Paese dipendere dalle parole che si affidano alla Rete? Di nuovo i social al centro: maestosi collettori di dati, registri permanenti delle nostre azioni da internauta. La mossa di Trump mina al diritto di parola, è stata l’immediata critica di molti attivisti. Ma dimostra anche come le informazioni che noi cediamo volontariamente, spesso senza renderci conto delle conseguenze, facciano gola non soltanto agli inserzionisti pubblicitari. Nemmeno i governi sanno resistere alla tentazione di monitorare quelle identità virtuali che ormai, pare, valgono anche come documento. O come fedina penale.