Un artigiano che rispettava la tradizione
Luigi De Filippo non trascurò gli amati classici, Molière o Pirandello. Gli autori prediletti furono Eduardo e il padre Peppino; e naturalmente metteva in scena le proprie commedie, ne scrisse una quantità. Ma ben altro fu il suo passo. Lo ricordo in anni lontani sul palcoscenico del teatro delle Arti in via Sicilia, a Roma. A quei tempi ero un affezionato spettatore. Mi piaceva, di Luigi, non solo lo humour napoletano, sotto i baffi; mi piaceva la fedeltà alla tradizione: la sua presenza, nel mondo che si dissolve, ricordava qualcosa che era in via di estinzione, perfino nel teatro, dove le famiglie sono da sempre state protagoniste. Oggi quasi ci si scandalizza (si finge di scandalizzarsi) se si intuisce che vi siano prossimità, affinità, parentele — come se nello pseudo-culto dell’artista ci si dovesse dimenticare che l’artigianato dell’arte è la vera base. Ecco, Luigi De Filippo fu prima di tutto un artigiano; poi, con umiltà, con grazia, fu un artista che ripercorse le orme del padre e dello zio. Mi viene in mente uno spettacolo straordinario. Concludeva l’anno 2010 all’argentina, un palcoscenico che con lui fu avaro. Chissà se con una qualche malizia Luigi vi rappresentò proprio L’avaro di Molière. Uno spettacolo magnifico, nel quale sono indimenticabili i segnali di decadenza, i velluti impolverati, gli arredi che cadevano in pezzi, le allusioni non solo alle avarizie ma a ben altre decadenze. Essenziale, in quello spettacolo, di Luigi, la calma, il tempo lungo, il passo felpato, l’impercettibile ironia.