Quei lunghi duelli al Colle
Nella Prima Repubblica erano un rito (quasi) scontato Dallo stop a Craxi nel ’92 le consultazioni sono la camera di compensazione delle crisi
Duelli al Colle. Nella Prima Repubblica erano un rito quasi scontato, ma dopo lo stop a Craxi, nel ‘92, le consultazioni sono diventate la camera di compensazione della crisi. Di conflitti e rifiuti, di accordi e veti prima dell’incarico.
Per tutta la Prima Repubblica le consultazioni al Quirinale sono state un rito che non riservava troppe sorprese e quindi affrontato quasi con apatia, dai partiti. Infatti il Paese, come ha sintetizzato Massimo Salvadori, era prigioniero di «un’alternanza al governo senza alternative di governo». Uno schema che costringeva il presidente della Repubblica a ratifiche notarili di scelte scontate, decise per lo più dalla segreteria della Democrazia cristiana, su cui faceva perno il sistema. Gli esecutivi cambiavano spesso, ma solo per regolamenti di conti tra correnti dello scudo crociato. Qualche eccezione, beninteso, c’è stata. Due esempi più o meno remoti. Il primo ci riporta a quando Luigi Einaudi designò Giuseppe Pella, contro la volontà della Dc. L’ultimo, di quella stagione, risale alla metà degli anni 80 e richiama il patto della staffetta tra Bettino Craxi e Ciriaco De Mita, per il quale quest’ultimo pretendeva — tra molte tensioni sul Colle — da Francesco Cossiga quasi una legittimazione costituzionale.
Ma è con la tabula rasa provocata da Tangentopoli che le cose cambiano, nei consulti istituzionali, e lo studio alla Vetrata del Colle è diventato la camera di compensazione di crisi veramente complesse. Momenti nei quali è pertanto accaduto che i capi dello Stato dispiegassero i loro poteri con una discrezionalità inedita.
Nel giugno 1992, Oscar Luigi Scalfaro riceve Craxi e gli nega l’incarico di formare il governo, che questi rivendica sulla base di un preciso accordo con la Dc. I due hanno una lunga consuetudine, anche perché Scalfaro è stato ministro dell’interno mentre il leader socialista era a Palazzo Chigi. Ora, però, deve respingerne l’autocandidatura: «Bettino, ti rendi conto che, con quello che sta emergendo nell’inchiesta di Milano, su di te oltre che sul tuo partito, finirai nel tritacarne entro poche settimane? Non è meglio se eviti l’umiliazione di esser cacciato a furor di popolo?». Craxi rinuncia, suggerendo al suo posto Giuliano Amato.
Nel maggio di due anni dopo, in coda alle consultazioni culminate con la nomina a premier di Silvio Berlusconi, nello stesso studio scatta un altro diniego quirinalizio. Succede quando il Cavaliere gli mostra la lista dei ministri del suo gabinetto in gestazione e il presidente scopre il nome di Cesare Previti come Guardasigilli. Scalfaro, pensando al Previti avvocato della Fininvest (che più tardi sarà coinvolto in uno scandalo di corruzione di magistrati), scuote la testa e il suo no diventa più forte quando il magnate delle tv gli spiega candidamente: «Sai, con lui alla Giustizia mi sento più tranquillo». «Forse non ci siamo intesi. Qui, sul mio tavolo, quel nome non passa. Per senso etico. Ricordalo».
Anche per questo motivo Scalfaro, sentendosi vincolato a un ruolo di supplenza mentre il sistema attraversava una fase convulsa e confusa, fu definito dall’economist per quegli interventi «Italy’s unneeded nanny», la bambinaia di cui l’italia non ha bisogno. Titolo che non lo scosse.
Scontri duri, svolte della storia nazionale. Come quella che, per stare allo stesso protagonista ma proiettandoci un po’ di anni in avanti, Berlusconi si trovò a vivere l’8 novembre 2011. Fu quando il capo di Forza Italia dovette arrendersi ai colpi della crisi (finanziaria e politica) e salire da Giorgio Napolitano, denunciando «i traditori irriconoscenti» che avevano fatto evaporare la sua maggioranza e dimettendosi con quello che davanti al presidente
L’eccezione
Einaudi nel ‘53 designò Pella premier contro il volere della Democrazia cristiana
definì «ecco il mio gesto di amor patrio».
Dialoghi che, come si vede, a volte sfociano nello psicodramma e i cui contenuti sono destinati a restare custoditi a lungo negli archivi della presidenza. Sì, perché le consultazioni dovrebbero rappresentare le udienze più segrete del Quirinale. Comprese quelle che cominciano domani, con tempi contingentati e invito a tutti di mantenere il riserbo. Da una parte dello studio il capo dello Stato, nel giro che comincia domani Sergio Mattarella, assistito dal segretario generale Ugo Zampetti e da un consigliere nelle vesti di verbalizzatore, Daniele Cabras. Dall’altra le delegazioni dei partiti, che secondo i vecchi protocolli dovrebbero essere composte al massimo da duetre persone (i capigruppo in Parlamento, accompagnati magari dal segretario del partito), ma che in alcune circostanze sono state elefantiache com’è accaduto ai tempi dell’unione di Romano Prodi.