Corriere della Sera

Il «dottor verticale» delle cime travolto sul Monte Bianco

Cauchy era il padre del soccorso alpino. La valanga durante un fuoripista

- di Agostino Gramigna

Neanche con la moglie Cécile, un’infermiera, la persona a lui più cara, parlava della morte. Che conosceva molto bene perché se l’era raffigurat­a più volte dietro ogni singola pietra, roccia, costone di montagna. «La morte» — diceva Emmanuel Cauchy — «fa parte del gioco». Per uno come Cauchy, però, dottore e alpinista, travolto e ucciso ieri da una valanga a Chamonix, mentre sciava, la morte è arrivata come una beffa, lui francese che in montagna ci viveva per lavoro e per sfidare il destino.

Era noto Cauchy, il dottore che aveva consacrato la sua vita a salvare quella degli altri sulle vette. Non per amore cristiano o per semplice altruismo, come aveva confessato nei suoi libri e negli articoli che scriveva per i giornali e che firmava con il nome di «Dottore verticale». Era l’adrenalina che lo faceva salire su un elicottero: «Scendere nei crepacci mi eccita, mi piace fare medicina quando è pericoloso». Sentiva il sangue pulsare con più violenza nelle vene quando a bordo di un velivolo s’incuneava tra le fessure di roccia per soccorrere un ferito o quando di fronte ad un corpo in ipotermia bisognava usare tutta la delicatezz­a di questo mondo: «Il ferito in questi casi è porcellana, si rischia di ucciderlo scuotendol­o appena».

Era nato 58 anni fa in Normandia dove il massiccio più alto è di 417 metri. Aveva studiato medicina a Rouen, poi si era trasferito a Chamonix per uno stage in ospedale. Stando in corsia ebbe modo di leggere le statistich­e degli incidenti annuali in montagna, 1400 soccorsi di media. Erano gli anni ottanta. Sugli elicotteri salivano solo i soccorrito­ri e si limitavano a legare il ferito. Non c’era il medico. Su impulso di un capo reparto, il giovane dottore germinò l’idea di creare un team di medici in grado di accompagna­re i volontari. Nacque la figura del dottore-acrobata. Sull’elicottero ogni secondo vale una vita, la diagnosi va fatta in fretta. Cauchy elogia l’azione: «Sul campo ho imparato tutto, lì ho approfondi­to le conoscenze sul congelamen­to, l’ipossia e l’ipotermia». Cauchy, il «verticale», ha partecipat­o a numerose spedizioni sportive e scientific­he. Ha scalato la vetta sud dell’everest senza ossigeno nel 1991, è stato in Cile, in Nepal, in Bolivia, in Georgia, e nelle isole Kerguelen.

Come medico soccorrito­re in alta quota ha passato più tempo sospeso su un argano o in un crepaccio che nei corridoi di un ospedale. Finché ha iniziato a fare i conti con il tempo. Sotto il tetto del suo chalet una sera confidò a Cécile e ai figli, Alix e Pierre, che le forze diminuivan­o e che era tempo di lasciare il campo dell’azione. Aveva 45 anni. Realizzò i suoi progetti: l’istituto per la formazione e la ricerca in medicina di montagna (Ifremmont) e la compagnia di telemedici­na di montagna Altidoc.

Da vera guida alpina non era tenero con chi rischiava la vita inutilment­e in montagna. Senza però mai giudicare: «Ogni anno salverò giovani alpinisti, non posso urlare contro di loro, ho fatto la stessa cosa, tutti gli alpinisti fanno le stesse cavolate a meno che non abbiano soldi per parare una guida. E chi può affermare di sapere con certezza se un pendio nevoso terrà o meno?».

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Il dottore Emmanuel Cauchy era nato nel 1960 a Petit-quevilly, in Normandia. Molto noto in Francia, ha partecipat­o a diverse spedizioni in alta quota: nel 1991 ha scalato senza ossigeno la parte sud dell’everest
Scalatore Il dottore Emmanuel Cauchy era nato nel 1960 a Petit-quevilly, in Normandia. Molto noto in Francia, ha partecipat­o a diverse spedizioni in alta quota: nel 1991 ha scalato senza ossigeno la parte sud dell’everest

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