LA RESISTENZA RITARDATARIA
Dall’indagine di Olivier Wieviorka sui movimenti di Liberazione dell’europa dalla dominazione nazista (Einaudi) emerge che gli Alleati per lungo tempo non riuscirono a trovare nostri connazionali che si schierassero dalla loro parte BEN POCHI ITALIANI PRI
Quella di Adolf Hitler — che iniziò nell’aprile del 1940 con l’attacco alla Scandinavia — fu un’offensiva davvero travolgente a cui arrise un successo che Olivier Wieviorka in Storia della Resistenza nell’europa occidentale 1940-1945 (in uscita oggi da Einaudi), definisce «spudorato». Il risultato fu che all’inizio dell’estate i principali Paesi europei — Gran Bretagna a parte — avevano deposto le armi e da Bruxelles a Varsavia, da Parigi a Oslo, da Praga ad Amsterdam sventolava la bandiera nazista. I capi di Stato o di governo di Belgio, Norvegia e Olanda avevano trovato riparo a Londra; «nutrite schiere di volontari» risposero agli appelli diffusi dal francese Charles de Gaulle, dal belga Hubert Pierlot e dal norvegese Johan Nygaardsvold e, con il fondamentale sostegno degli Alleati, diedero inizio ad una resistenza contro le truppe che marciavano dietro il vessillo con la croce uncinata.
Finita la guerra, però, dappertutto nei Paesi che avevano resistito fu promossa una politica della memoria che «minimizzava il contributo degli Alleati quando addirittura non lo passava sotto un indifferente silenzio». Lo stesso de Gaulle nel discorso che tenne a Parigi il 25 agosto del 1944 rese omaggio al proprio Paese liberato «con le proprie mani», dal suo popolo «con l’aiuto degli eserciti della Francia, con l’appoggio e il concorso della Francia tutta, della Francia che lotta, dell’unica Francia, della vera Francia, della Francia eterna!». Limitandosi a salutare con «un fugace e striminzito omaggio» i «nostri cari e ammirevoli alleati». In Danimarca la Resistenza fu considerata come qualcosa a cui i britannici si erano limitati a «fornire i mezzi». E fu così dappertutto. Lì per lì la cosa parve naturale. Del resto, come ha osservato lo storico Pieter Lagrou, «esaltare il contributo dei movimenti di resistenza endogeni era l’unico modo che quei Paesi avevano a disposizione per costruire un mito nazionale».
Questa «visione idilliaca», tuttavia, corrisponde ben poco, scrive Wieviorka, «ai fatti, quantomeno a quelli colti dagli storici». Anche per quel che riguarda la coalizione nata all’ombra dell’union Jack e della bandiera a stelle e strisce che «risentì degli aspri rancori del periodo tra le due guerre e portò con sé concezioni divergenti, quando non opposte, dell’avvenire dell’umanità». È noto che, pur cooperando, Londra e Washington vennero più volte ai ferri corti. Quanto ai fattori nazionali, ebbero sì «un ruolo eminente nella nascita della Resistenza», ma poi, nella crescita della reazione ai nazisti, «la parte svolta dagli angloamericani fu di indiscutibile centralità».
Se vogliamo ricostruire la storia della Resistenza in Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia e Italia — la zona di intervento angloamericana — è necessario, secondo Wieviorka, sfuggire a «quattro forme di semplificazione». La prima è di «credere che gli Alleati onnipotenti tirassero le fila delle resistenze locali». La seconda di «ritenere che queste ultime potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni». La terza di «immaginare che la necessità di abbattere il nazismo abbia fatto scomparire d’un sol colpo le logiche di interesse». La quarta di «sopravvalutare il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune». Ne viene fuori un quadro assai più sfaccettato di come andarono le cose.
Quel che davvero accadde nell’europa continentale travolta dalle armate naziste fu assai poco lineare. Spesso, anzi, assai in contrasto con la versione accreditata degli eventi. A partire dalla stizzita reazione francese alla subitanea capitolazione dell’olanda e del Belgio. «Ecco che nel vivo della battaglia il re del Belgio Leopoldo III, senza degnare neppure di uno sguardo e una parola i soldati francesi e inglesi che in risposta al suo appello angosciato erano accorsi in aiuto del suo Paese, ha deposto le armi», protestava il presidente del Consiglio francese Paul Reynaud, stigmatizzando la resa belga come «un fatto storico senza precedenti». Per proseguire con lo sconcerto generale allorché, dopo l’invasione hitleriana della Norvegia, il partito comunista locale, allineato sulle posizioni di Mosca, chiese la collaborazione con Berlino pur reclamando «per contrappeso» l’abdicazione del re Haakon (fuggito in Inghilterra) e la formazione di un «governo degli operai, dei contadini e dei pescatori». Anche la regina Guglielmina d’olanda riparò in Gran Bretagna mentre il «suo» governo (guidato da Dirk Jan de Geer, presto indotto alle dimissioni) cercava la via di un compromesso con Hitler. In Belgio, il ministro degli Esteri Paul-henri Spaak confortava il re Leopoldo III scrivendogli che, se la Germania non avesse riportato al più presto «una vittoria decisiva», il suo destino sarebbe stato di essere «sconfitta». Era il 26 maggio 1940. Quarantott’ore dopo, il 28 maggio, l’esercito belga si arrese, il re si consegnò prigioniero e l’intero Consiglio dei ministri riparò in Francia, ai primi di luglio fu a Vichy per cercare una trattiva con il Führer. Tutto ciò mentre il ministro della sanità Marcel-henri Jaspar era scappato in Inghilterra per pronunciare dalla Bbc un discorso echeggiante quello del generale de Gaulle. Dopodiché i ministri, mai presi in considerazione da Hitler, espatriarono in Inghilterra, dove però non furono considerati granché a causa della loro performance alla corte di Philippe Pétain.
In ogni caso la stessa Londra esitava a rompere con Vichy nella speranza che alcuni importanti ufficiali — come il generale Weygand — «passassero prima o poi al campo della libertà». Winston Churchill ordinò sì il cannoneggiamento della squadra navale francese ancorata nella base algerina di Mers elkebir, nei pressi di Orano (ciò che provocò la rottura tra Londra e Vichy), ma cercò ancora di tenere il piede in due staffe evitando di affidarsi in toto a de Gaulle e di infierire sul vincitore di Verdun. Una Francia neutrale, dal suo punto di vista, «restava preferibile a una Francia legata mani e piedi alle sorti del Reich». Un identico calcolo fu alla base della strategia britannica nei confronti della Danimarca. Un quadro assai confuso. Così come l’altro quadro, quello del contrasto europeo al nazismo, fu assai deludente.
A questo punto il ministro dell’economia di guerra, il laburista Hugh Dalton, scrisse a Churchill: «Dobbiamo organizzare nei territo-